Capitano quei giorni che non sono contento di me. Capitano spesso. Come sono diverso dalla persona che avevo sognato di diventare… Piccole miserie, paure, che proprio non riesco a scrollarmi di dosso. Poi arriva l’ora di andare a dormire. Come Giorgio Gaber verifico cento e cento volte di aver spento il gas, guardo il mare fuori dalla finestra (chissà perché cerchiamo le tracce di noi stessi nel mare e non nella vicina terra), mi preparo al piccolo congedo di ogni notte che sembra quasi un anticipo di quello più grande. E vado a vedere i miei tre figli che dormono, uno accanto all’altro, con quei capelli (“capelli a milioni” cantava Fiorella Mannoia) che gli escono dalla testa come i pensieri, come i sogni che devono fare in questo momento. All’improvviso, guardandoli, penso: se non avessi fatto esattamente quello che ho fatto, se non avessi compiuto gli stessi passi, uno per uno, se non avessi perfino commesso gli stessi errori non sarei arrivato a loro. Così d’un tratto mi pare che tutto sia stato… no, non dico giusto… ma che abbia avuto un senso. E per un momento, grazie a loro, mi perdono.

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