di Vittorio Pellegrini

CARBURANTE idrogeno al posto del petrolio. Possibile? L’economia all’idrogeno, come l’ha battezzata l’americano Jeremy Rifkin, è, sulla carta, una delle prospettive per risolvere il problema energetico. L’idrogeno, che non è una fonte di energia bensì un efficiente vettore energetico, permette di ridurre lo spreco sia in fase di trasporto che di utilizzo. Da ciò consegue una forte riduzione di emissioni di gas serra. Nonostante questo, a oggi il suo uso è limitato. Perché? Per rispondere partiamo dal cuore di questa possibile rivoluzione, e cioè la pila a combustibile. Il principio sfrutta una reazione elettrochimica in grado di generare elettricità. Il “carburante” è la molecola di idrogeno che nella pila viene facilmente separata in due ioni idrogeno e due elettroni. Gli elettroni vengono quindi veicolati in un circuito posto tra i due elettrodi della pila. Questa corrente elettrica è utilizzata per alimentare un dispositivo. Per esempio un’automobile. Gli ioni idrogeno invece si combinano con ossigeno e producono acqua, lo “scarico” di questo “motore”. Siamo di fronte a una tecnologia semplice e efficiente. Ma allora dove sta il problema? Ce ne sono due e su entrambi non disponiamo ancora di soluzioni ottimali. Il primo: l’idrogeno viene attualmente prodotto per lo più tramite fonti fossili tradizionali con conseguente emissione di anidride carbonica, perdendo parte del vantaggio legato al suo utilizzo. Poco si guadagnerebbe producendo idrogeno dalla scissione (o ossidazione) dell’acqua perché il processo è piuttosto dispendioso. Il motivo è che la molecola di acqua, formata da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, è tenuta assieme da legami fortissimi e per romperli occorre una buona dose di energia. Per dissociare due molecole di acqua con conseguenze produzione di due molecole di idrogeno, occorrono più di 100 chilocalorie (più o meno l’energia necessaria per portare a ebollizione un litro e mezzo di acqua). Esiste però una soluzione efficace che la natura applica quotidianamente utilizzando l’energia del sole: la fotosintesi clorofilliana, un processo chimico durante il quale acqua e anidride carbonica vengono scisse. La pianta utilizza questo meccanismo non per rilasciare idrogeno quanto per produrre ossigeno, glucosio e altri composti organici, utili alla vita. Una parte significativa della ricerca attuale ha quindi come obiettivo quello di riprodurre in laboratorio questo processo di fotosintesi clorofilliana utilizzando la nanotecnologia e indirizzandolo verso la produzione di idrogeno. Un problema complesso che richiede investimenti significativi – in Italia abbiamo già gruppi di ricerca all’avanguardia in questo settore. Ma esiste un secondo ostacolo: lo stoccaggio. Dove e come immagazzinare idrogeno. L’idrogeno è un gas a temperatura ambiente e tende a occupare spazi molto grandi. Facciamo un esempio: per percorrere 500 km con una berlina occorrono circa 30 litri di diesel. Se alimentata con una pila a combustibile occorrono circa 5 Kg di idrogeno. Ma a temperatura e pressione ambiente 5 Kg di idrogeno occupano uno spazio equivalente a un pallone di 7 metri di diametro. La soluzione più semplice è quella di comprimere l’idrogeno in bombole ad alta pressione. Certo è che avere sotto il sedile qualche metro cubo di idrogeno gassoso sottoposto a più di cento volte la pressione atmosferica non rappresenta una soluzione ideale. Altra possibilità è quella di immagazzinarlo in forma liquida, sempre in bombole. Questo processo, però, richiede temperature attorno ai -250 gradi. La ricerca attuale si sta quindi indirizzando verso lo studio di materiali che possano essere utilizzati come spugne per l’intrappolamento e il rilascio di idrogeno in modo controllato. A oggi esistono diverse soluzioni. Nessuna però del tutto soddisfacente. Per esempio si possono usare alcuni metalli come magnesio, palladio o leghe nickel-lantanio che, però, sono troppo pesanti. Inoltre, una volta intrappolato, l’idrogeno viene rilasciato troppo lentamente e solo se si aumenta la temperatura del metallo a oltre 300 gradi. Una ricerca di frontiera nella quale l’Italia è in prima fila è legata all’utilizzo di materiali a base di carbonio come il grafene, la sottile membrana di atomi di carbonio disposti a geometria esagonale e recentemente isolata. La grande superficie disponibile e la relativa facilità di legame tra l’idrogeno e gli atomi di carbonio rende le nanostrutture di carbonio particolarmente interessanti.

In definitiva, l’economia all’idrogeno è una concreta prospettiva ma per decollare necessita ancora di molta ricerca di base. I paesi che la faranno saranno i primi a sfruttarne le ricadute industriali. Un ulteriore esempio del circolo virtuoso che lega ricerca di base e innovazioni tecnologiche.

PER APPROFONDIRE

Programma del dipartimento energia (DoE) degli USA: http://1.usa.gov/bcYl70

ENEA: http://bit.ly/kwXmAE

Istituto Italiano di Tecnologia, Istituto Nanoscienze – CNR e Scuola Normale Superiore: http://bit.ly/kXhbTo

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