L’immagine curva del vigile filtra attraverso le lenti degli occhiali da sole. È una piccola piazza scintillante di luce solare, brulicante di passanti e di auto in sosta. Il vigile mi spiega bonariamente che occupo un posto in seconda fila e che devo muovermi alla svelta se non voglio beccarmi una contravvenzione. Sollevo la testa oltre il finestrino e indico il portone dal quale stanno per uscire le persone che sto aspettando. Il vigile annuisce, avrà pazienza ancora per qualche minuto.

Mentre aspetto in macchina, lasciando che il mio braccio si arrostisca al sole e che dalla radio zampilli un vecchio pezzo di Peter Gabriel, vedo un uomo che si avvicina a me. Ha la pelle scura e un’aria desolata, ha un’età tra i venti e i trenta, indossa un giubbotto nero sotto il quale nasconde un po’ di merce, pacchi di fazzoletti, accendini. Si accosta alla mia macchina, non prova nemmeno a vendermi i suoi articoli, pronuncia solo tre parole: “Aiutami, per favore”. Lo fa con la voce tranquilla, un po’ roca, senza mostrare angoscia o sofferenza, guardandosi intorno come per accertarsi che nessuno lo veda o lo senta. Appoggia il gomito sul tetto della macchina e tira il fiato.

Con uno scambio veloce di battute mi spiega che l’hanno cacciato da tutti i negozi della zona. Durante la mattinata non ha fatto altro che sentirsi dire frasi come «se non esci chiamo la polizia», oppure «negro di merda», o la più gentile di tutti, una garbata commerciante in un negozio di cosmetici che parafrasando una delle tante “battute colorite” di un famoso ministro della repubblica gli ha intimato un virile «fuori dai coglioni». Il suo sembra un racconto di Toni Morrison, o il verso di una poesia di Wole Soyinka.

Gli chiedo il suo nome, mi risponde con qualcosa che io interpreto come Ousmane, ma certamente la mia pronuncia è sbagliata, e quindi torno a ripetere quel nome più volte. La questione della pronuncia del nome non gli interessa, sembra l’ultimo dei suoi pensieri. È gente ridotta a questo, penso, a giudicare il proprio nome come un accessorio di nessuna importanza. Ma se il nome è la tua terra (la tua casa, tuo padre e i tuoi fratelli, i tuoi legàmi e la tua cultura) rinunciarci solo perché in questo paese ricco e assolato in cui credevi di trovare fortuna il tuo nome rappresenta l’ennesimo ghetto, l’ennesimo posto di blocco da superare sperando che non ti spacchino la schiena a calci, significa accettare di svanire come essere umano, significa ammettere di essere ormai solo un corpo che inghiotte merda, almeno fino a quando in quella merda sopravvive un residuo nutrizionale.

Il fascismo non esiste solo nei libri di scuola (anche se lì, presto, gli cambieranno il nome), non esiste nelle paure della gente perbene. L’oligarchia di affaristi e speculatori, di razzisti e corrotti, che ha messo le mani su questo paese, ha acceso incendi nella testa e nella volontà delle persone, le ha educate ad assecondare i propri istinti ferini, le proprie oscure sopraffazioni. Al suono degli applausi e di fronte alle macchine da presa hanno insegnato che fare i baciaculo coi potenti e urlare odio contro i nemici è “morale”.

Allora Ousmane, dovrai conservare un po’ della tua forza, per resistere a chi ti ha dichiarato guerra e smettere di vergognarti del tuo nome. Prendi questa carità fatta di pochi spiccioli e di un po’ di comprensione, che forse è pure peggio degli insulti, e continua a camminare sotto il sole di Roma, come fanno i cani che cercano una pozzanghera in cui bere, come faceva Cristo quando parlava di redenzione.

Articolo Precedente

Questa volta scrivo da mamma commossa

next
Articolo Successivo

I nuovi mille

next