È accaduto un fatto assai curioso. Un fatto microscopico rispetto a tutto ciò che accade. Ma le ombre, in fondo, ci parlano piano del sole. Tanto che persino Giuliano Ferrara non se l’è lasciato sfuggire questo fatto ghiotto dedicandogli la sua trasmissione.


Ma qual è il fatto? Alcuni giorni fa l’Arcigay di Bari ha eletto presidente un uomo eterosessuale. Che dire? Ognuno elegge chi vuole in sua rappresentanza. Come ha dichiarato lui stesso, il neo presidente è qui “per affermare con tutti voi che Arcigay Bari esce dal confine che segna le differenze tra persone. Si può stare insieme – aggiunge – senza chiedersi perché”. Molti plaudono alla fine di uno steccato che divideva il mondo Lgbtq (gay, lesbo, bisexual, trans, queer) da quello “etero”. Il messaggio è chiaro e forte: anche una persona eterosessuale può lottare per i diritti omosessuali. Di più, in questo caso. Egli lotta in rappresentanza delle persone omosessuali. Sembra un paradosso virtuoso.

Eppure non riesco a nascondere un disagio. Davvero i diritti sono una cosa e la propria affermazione un’altra? Davvero è possibile lottare senza essere il soggetto di questa lotta? Recita un proverbio ebraico: “Se non sono io a pensare a me, chi lo farà? Ma se devo pensare a me, chi sono io?” Una persona eterosessuale può rappresentare le persone omosessuali nelle loro lotte? Non si tratta qui di lottare insieme su certi diritti, il che già avviene. Si tratta di delegare l’istanza della propria lotta a qualcun altro che, nonostante i suoi buoni propositi che non sono assolutamente qui messi in dubbio, fa parte suo malgrado di quella maggioranza che tende ostinatamente a negarli. E che, tra l’altro, crede sempre di poter parlare a nome di tutti. Insomma, è una questione politica nel senso più alto della parola poiché chiama in causa il concetto di identità e di rappresentanza.

Prendiamo la questione del “confine”. Chi ha segnato questo confine? Se l’intenzione è di affermare che il mondo Lgbtq si ghettizza e questa è l’occasione per uscire dal ghetto facendo sparire le differenze, allora non credo che questa persona possa davvero rappresentare la nostra comunità. A parte la presunzione di insegnare a nuotare ai pesci (cosa che amano molto fare le maggioranze), andrà ricordato che coloro i quali si ritrovano confinati in un ghetto non lo hanno voluto per loro scelta, né per capriccio. A nessuno piace vivere limitando la propria vita. Qualcun altro ha alzato i muri e piantato il filo spinato. E’ apprezzabile che ora coloro che li hanno alzati cerchino di picconarli, ma sarebbe gentile non far cadere le macerie su chi vive dall’altra parte.

Perché – spiegazione a uso dei bambini – è una brutta cosa se un “etero” diviene rappresentante Lgbtq? Perché un movimento per i diritti di una minoranza deve essere rappresentato da qualcuno che è parte di quella minoranza. Questo gesto è sciagurato perché afferma che una minoranza non sa parlare per se stessa e ha bisogno di un rappresentante della maggioranza per esser presa in considerazione. Rappresentare significa qui testimoniare. Se io stesso mi presento a testimoniare a mio favore in un tribunale, la mia testimonianza non conta nulla. Perché una testimonianza abbia valore c’è bisogno che un altro testimoni per me. Ma è qui la violenza, nel ritenere che si viva di fronte ad un tribunale dove la nostra parola non conta nulla, che si abbia bisogno di quella di qualcun altro, di quella della maggioranza la quale è, paradossalmente, anche il tribunale che ci giudica.

Di cosa è segno dunque questo gesto? Dell’impedimento di una coscienza di lotta. L’eterosessuale benevolo che viene a noi per liberarci dalle nostre catene è pericoloso come quello che queste catene le ha forgiate. Non perché egli non faccia qualcosa di giusto, ma perché rende impossibile la coscienza della propria lotta, il sapere chi si è e per questo lottare ogni giorno.

“Felice chi è diverso / essendo egli diverso / ma guai a chi è diverso / essendo egli comune” cantava Sandro Penna in una età ormai lontana.

di Federico Boccaccini, Université Paris1-Sorbonne.

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