«Scusate, ma io non capisco l’italiano»

Negli archivi della stazione dei carabinieri di Arcore sono custoditi due documenti imbarazzanti. Un rapporto e un fonogramma sulla base dei quali nel 1996 la Procura di Palermo sosterrà che perlomeno Dell’Utri, fin dal 1973, era al corrente dello spessore criminale di Mangano; e che dunque la sua assunzione fu il frutto non di un errore, ma di una precisa e ben ponderata scelta. Secondo l’accusa, la lettura di questi fogli ingialliti dimostra che Marcello Dell’Utri mente quando, in una mezza dozzina di interrogatori e di interviste, ha affermato di aver scoperto i burrascosi trascorsi di Mangano soltanto in occasione di un tentato sequestro organizzato da Cosa nostra ai danni di un ospite di casa Berlusconi 5. Il 30 dicembre 1974 i militari di Arcore scrivono: «Dell’Utri, anch’esso originario di Palermo, ha lasciato un impiego in banca per seguire Berlusconi ed una volta qui ha chiamato Mangano pur essendo perfettamente a conoscenza – è risul-tato dalle informazioni giunte dal Nucleo investigativo del gruppo di Palermo – del suo poco corretto passato». Non solo: nel fonogramma inviato tre giorni prima dai carabinieri di Arcore ai loro colleghi siciliani, viene anche smentita la versione, poi divenuta ufficiale, sull’origine del rapporto tra Dell’Utri e il fattore di rispetto.

Quando si è trattato di parlare – sia con i magistrati, sia con i giornalisti – del loro primo incontro, Dell’Utri e Mangano hanno sempre tirato in ballo la Bacigalupo, una squadra di calcio giovanile creata dal braccio destro di Berlusconi e da suo fratello Beppe nel 1957. Già nel 1987, Dell’Utri aveva affermato di aver conosciuto Mangano sui bordi di quei campi da gioco 6, per arrivare poi a spiegare, nel 1996, che a cementare i loro rapporti era stato Gaetano Cinà, il titolare di una lavanderia di Palermo, oggi ritenuto uomo d’onore della famiglia di Malaspina. «Cinà», ricorda Dell’Utri, «era il padre di uno dei tanti ragazzi che imparavano il football nella scuola di calcio dove ero istruttore. Mangano assisteva alle partite. Veniva da noi talvolta da solo e talvolta con Cinà del quale era amico» 7. Il 27 dicembre del 1974 i carabinieri sembrano però pensarla in ben altro modo. Nel loro fonogramma, infatti, annotano: «Dell’Utri era impiegato nella banca di Belmonte Mezzagno – Cassa di Risparmio – dove avrebbe conosciuto il Mangano». All’inizio di tutto, insomma, potrebbe non esserci stato solo il calcio, ma anche un legame nato nella filiale della Sicilcassa dove Dell’Utri, prima di lavorare per Berlusconi, era stato preposto di agenzia.

Comunque siano andate le cose, la questione rimane spinosa. Dell’Utri infatti non ha mai rinnegato «l’antico e perdurante rapporto di amicizia con Gaetano Cinà», limitandosi ad assicurare di «non aver mai avuto sentore che egli potesse essere vicino ad ambienti di mafia». Il fatto che grazie a lui Cosa nostra sia riuscita a mettere un piede in casa Berlusconi non sembra averlo turbato, né lo ha indotto – come vedremo – a tagliare i ponti con questo inquietante bottegaio amico degli amici. Classe 1930, titolo di studio «Terza elementare», Cinà è un personaggio chiave. Tutti i più importanti pentiti saranno concordi nel dichiarare che, almeno a partire dal 1980 e sicuramente fino a dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, attraverso lui il gruppo Berlusconi ha periodicamente versato alla mafia grosse somme di denaro. Cinà – o meglio «Tanino», come lo chiama il suo amico Dell’Utri – ovviamente lo nega. Interrogato due volte nell’estate 1996, il commerciante sarà però costretto ad ammettere parentele e amicizie con alcuni tra i più bei nomi dell’Onorata società come Mimmo Teresi (il braccio destro di Stefano Bontate).

Proprietario di una lavanderia e di un negozio di articoli sportivi, Cinà non ha infatti sposato una donna qualunque. Sua moglie, una Citarda, appartiene a una dinastia di gente di rispetto che, almeno fino alla seconda guerra di mafia, ha retto con il pugno di ferro la famiglia mafiosa di Malaspina. Un gruppo di uomini d’onore che al traffico di droga e alle attività delinquenziali in senso stretto alternava fitti scambi di favori con esponenti autorevoli del mondo politico siciliano. Secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, anche Salvo Lima, il proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, era un picciotto della Malaspina, mentre l’ex segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti, morto suicida il 18 novembre 1984, divideva il proprio studio di avvocato con un altro soldato del medesimo clan 8. In questo ambiente, Tanino Cinà, carissimo amico di Dell’Utri e di Mangano, sembra muoversi a proprio agio. Usa pochissimo il telefono, e quando lo fa si limita a fissare con i propri interlocutori appuntamenti a tu per tu per evitare il rischio di essere intercettati 9.

Calogero Ganci (figlio del capomandamento della Noce, Raffaele, da cui dipende la famiglia di Malaspina), e Totò Cancemi (primo componente della Cupola a essersi pentito), spiegheranno come Cinà, negli anni Settanta, fosse particolarmente legato a due boss poi uccisi dai corleonesi: Stefano Bontate e suo cugino Mimmo Teresi. Del primo già si è detto, il secondo è invece un imprenditore edile che nel 1978 sosterrà di essere in procinto di diventare socio di Silvio Berlusconi nelle prime emittenti televisive. Cinà minimizza questi contatti. Davanti ai magistrati, il 22 giugno 1996, assicura di «non conoscere affatto Bontate, persona che ritengo troppo importante per me», ma ammette i rapporti con Teresi, «nipote di mio cognato Benedetto Citarda». L’amico di Dell’Utri ricorre poi ai complicati intrecci di parentela per giustificare gli affari conclusi con l’imprenditore Salvatore Sbeglia 10, l’uomo accusato di aver fornito il telecomando utilizzato da Cosa nostra per far saltare l’autostra-da Palermo-Punta Raisi al momento del passaggio del giudice Giovanni Falcone.

«Sua madre, che è una Mazzara», dichiara Cinà, «è cugina di mia madre, e inoltre la moglie di Sbeglia, Giovannella Blandi, è nipote di mia madre. Con lui ho messo in piedi un negozio di articoli sportivi. Furono mia sorella – sposata con Angelo Prestigiacomo – e Giovannella ad avere l’idea… Ma dopo due anni abbiamo deciso di chiudere il negozio perché l’attività non andava bene». Per la Procura di Palermo, però, dietro questa iniziativa commerciale apparentemente innocente si nasconde ben altro. Sbeglia infatti è considerato un prestanome di Raffaele Ganci, il più fedele alleato che Totò Riina poteva vantare a Palermo.E sia su di lui sia su Cinà gravano pesanti sospetti di traffico di droga.

Quella di Tanino, insomma, non può certo considerarsi una bella e onesta compagnia. E l’affetto, sincero, che lega Dell’Utri a Cinà, rischia di diventare pesantissimo per il braccio destro di Berlusconi. Ricorda Tanino: «Ho gravitato a lungo negli ambienti della squadra di calcio della Bacigalupo. Infatti mio figlio Filippo giocava in quella formazione prima di essere ceduto al Varese e infine al Palermo. In quelle occasioni ho conosciuto Marcello, che allenava la squadra: era già avvocato e lavorava presso una banca. Io stesso sono stato per dieci anni dirigente della Bacigalupo. Risale ad allora la mia grande amicizia con Dell’Utri, che per me è come un figlio. Proprio lui, del resto, mi ha aiutato in un periodo buio della mia vita, quando era stato diagnosticato un sarcoma a mio figlio Filippo. Marcello, che conosceva tale Ferrara, un ex nazionale di calcio, mi mise in contatto tramite lui con il professor Gui del Rizzoli di Bologna. Questi, fortunatamente, dopo averlo visitato concluse che non vi era carcinoma. Io rimasi quindi obbligato con lui che, successivamente, si trasferì a Milano per lavorare con Berlusconi». Cinà dunque conferma che tutto è cominciato ai bordi di un campetto di calcio. Ma da detenuto, il 1° agosto 1996, sosterrà – al contrario di Dell’Utri – di non essere mai stato particolarmente vicino a Vittorio Mangano: «Con lui non vi erano altri rapporti oltre alla comune frequentazione di ambienti calcistici. Dopo di allora non l’ho neppure più visto».

La preoccupazione maggiore di Cinà sembra comunque essere quella di negare ancora e sempre i legami con il boss di Santa Maria del Gesù Stefano Bontate. Definirlo, come aveva fatto nel primo interrogatorio, «una persona troppo importante per me», è stato indubbiamente un errore: una simile frase sottintende una perfetta consapevolezza del suo spes-sore di capobastone. Così Cinà si arrampica sugli specchi: «Tengo a chiarire che ho una limitata conoscenza della lingua italiana… quando ho detto al pubblico ministero che ritenevo Bontate troppo importante per me, intendevo dire che avevo appreso dai giornali che il medesimo era un uomo molto potente tra i mafiosi». Tanino è in difficoltà. Gli investigatori, al momento dell’arresto, gli hanno trovato in tasca il numero di telefono di un altro uomo d’onore imparentato con i Ganci, e dieci giorni di pedinamenti sono bastati per vederlo incontrarsi con due pluripregiudicati, uno dei quali per mafia e traffico di droga, ed entrare in contatto – attraverso una parente – con Beppe Dell’Utri, il fratello maggiore di Marcello 11.

Il braccio destro di Berlusconi però sull’onestà di Cinà giura di non aver mai dubitato. Il 1° luglio 1996, durante il suo secondo e ultimo faccia a faccia con i magistrati di Palermo, ribadisce: «Come ho già detto, io non sapevo che Cinà e Mangano fossero uomini d’onore. Anzi – mentre per Mangano qualcosa poi l’ho capito – per quanto riguarda Cinà non sono a tutt’oggi convinto che egli possa essere stato un uomo d’onore. Io sono legato da grande amicizia a Cinà e pertanto non ho difficoltà ad ammettere che l’ho frequentato fino a tempi recentissimi, potrei dire che lo frequento ancor’oggi». Contraddizioni, reticenze, inspiegabili incongruenze. Il mistero Vittorio Mangano resiste per ventidue anni. Poi all’improvviso, negli ultimi mesi del 1996, tutti i frammenti di quella verità difficile, emersi dagli archivi e dalla memoria dei protagonisti di allora, cominciano a combaciare. E il 12 settembre 1996 a inserire nel mosaico il penultimo tassello è un testimone oculare. Un uomo espulso da Cosa nostra perché accusato di aver imbrogliato gli amici fingendo il sequestro di una partita di droga, e finito per anni in esilio a Londra. Si chiama Francesco Di Carlo: dal 1974 al 1978 è stato il capo della potentissima famiglia di Altofonte. Di Carlo, grazie a un titolo nobiliare acquistato a Malta, oltremanica e in Sicilia era conosciuto come “il Baronetto’’. Rispettato e temuto nonostante il suo sgarro, questo boss appassionato di storia, di araldica e di antiquariato, in Inghilterra trafficava in cocaina ed eroina con gli uomini d’onore trapiantati in Canada e in Venezuela 12.

La sua testimonianza sarà per Dell’Utri una specie di mannaia. «Gaetano Cinà, che conosco da più di vent’anni», racconta Di Carlo, «me lo presentò in un bar di via Libertà a Palermo. Eravamo a metà degli anni Settanta. Qualche mese dopo il nostro primo incontro rividi Dell’Utri a Milano. Io al nord ci andavo abbastanza spesso per ragioni di lavoro: avevo una ditta di trasporti. Prima di partire Cinà mi disse che anche lui doveva salire a Milano e così ci mettemmo d’accordo di vederci lì. L’appuntamento era stato fissato in un ufficio in via Larga di proprietà di alcuni nostri amici. Fu in quell’ufficio che incontrai Cinà, Mimmo Teresi e Stefano Bontate. Mi ricordo che quel giorno erano particolarmente eleganti. Io domandai il perché e loro mi risposero che dovevano andare da un grosso industriale milanese amico di Cinà e di Marcello Dell’Utri. E visto che io non avevo niente da fare mi proposero di seguirli». Francesco Di Carlo entra così nella sede dell’Edilnord. In macchina, Bontate gli ha spiegato che chi li attendeva aveva paura dei rapimenti, e che era necessario garantirgli protezione. Ed è proprio di questo che Bontate discuterà con Silvio Berlusconi, presenti anche Cinà, Teresi, Di Carlo e Dell’Utri. Si è tra uomini d’onore: i discorsi sono allusivi, indiretti, ma perfettamente comprensibili.

«Dottore, lei da questo momento può smettere di preoccuparsi. Garantisco io… Perché piuttosto non pensa a investire nella nostra bellissima isola? Da noi c’è tanto da costruire» dice suadente il principe di Villagrazia. «Vorrei, vorrei… Ma sa, già qui al nord ci sono tanti siciliani che non mi lasciano tranquillo…», gli risponde Berlusconi. «La capisco», dice Bontate, «ma adesso è tutto diverso. Lei ha già al suo fianco Marcello Dell’Utri, e io le manderò qualcuno che le eviterà qualsiasi problema con quei siciliani». Berlusconi: «Non so come sdebitarmi, resto a sua disposizione per qualsiasi cosa». Bontate: «Anche noi siamo a sua disposizione. Se c’è un problema basta che ne parli con Dell’Utri…» 13. Chi erano i siciliani che non lasciavano tranquillo Berlusconi? Qual è il retroscena di quella riunione di capimafia negli uffici dell’Edilnord? Per scoprirlo i magistrati di Palermo dovranno attendere solo un mese e mezzo. Il 23 ottobre 1996 la confessione di Salvatore Cucuzza, successore di Vittorio Mangano alla guida della famiglia di Porta Nuova, inserisce nel mosaico l’ultima tessera.

«Dal 1983 al 1990 io e Vittorio siamo stati in carcere insieme», ricorda Cucuzza. «Lui era malato e io lo accudivo. Per questo Mangano mi parlò spesso delle sue vicende milanesi. Vittorio mi disse di essere arrivato a Milano nel 1972-73 al seguito di Gaetano e Nino Grado e di Totuccio Contorno 14. Con loro realizzò diversi “lavoretti’’, tra cui alcune estorsioni, anche ai danni delle proprietà di Berlusconi. Proprio per questo Berlusconi, che intendeva garantirsi da ulteriori at-tentati, lo assunse come fattore ad Arcore tramite Gaetano Cinà». Mangano però continuava a fare il furbo, organizzava truffe e addirittura sequestri di persona che avevano come obiettivo i familiari del suo datore di lavoro. Per questo una volta che il giovane boss lasciò la villa «Berlusconi si rese conto che gli necessitava comunque una garanzia da parte di Cosa nostra». Tramite Cinà venne così intavolata una trattativa direttamente con Bontate e Teresi. «Berlusconi», spiega Cucuzza, «raggiunse con loro un accordo per il versamento di una tangente di 50 milioni l’anno. La stessa cifra che veniva prima versata a Mangano».

Il regista dell’intera operazione è dunque sempre lui, Gaetano Cinà, il fraterno amico di Dell’Utri.

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