Il 17 novembre cento cortei di studenti organizzati dalla Rete della Conoscenza sfileranno per le città italiane, ma già in questi giorni sono tantissime le scuole in agitazione o occupate. Da 40 anni ormai l’okkupazione è diventata una costante di ogni autunno.

Fino a qualche anno fa, quando i ragazzi venivano a dirmi che il nostro istituto era occupato e che dovevo accomodarmi fuori, ero contento. Per l’inconfessabile motivo che avrei goduto di una diecina di giorni di ferie pagate. E perché pensavo che quel voler essere protagonisti, quel riappropriarsi della scuola fosse in qualche modo un impulso sano, vitale. Del resto, come la maggioranza di quelli che insegnano oggi, quando ero studente anch’io occupavo la mia scuola.

Il professor Talarico, nel mio film La scuola è finita, assomiglia a me e a tanti miei colleghi in questa sua prolungata continuità con la propria giovinezza, che è al tempo stesso radice della sua vitalità e della sua frustrazione. Ecco, mi piacerebbe che quest’anno il rito stanco e svuotato dell’okkupazione si svolgesse invece come nel film, con la partecipazione attiva del professor Talarico. Perché il rito, per ritrovare senso, deve aiutare a rimarginare una ferita orribile, che ha fatto sì che per moltissimi ragazzi la scuola sia un luogo di noia invece che di partecipazione appassionata.

Per questo vorrei dire ai miei colleghi, quest’anno occupate anche voi insieme ai vostri studenti.

Mi sembra di capire che la Rete della Conoscenza proponga attività culturali e artistiche per animare le iniziative di mobilitazione. È una novità importante, essenziale rispetto alle iniziative che si fondano solo sulla proposta intellettuale o ideologica.

L’arte, la letteratura, la musica, il teatro, il cinema, insomma la bellezza che riesce a suscitare emozione e riflessione sulla realtà, ci rendono capaci di provare empatia, ci allenano a reagire all’anestesia in cui questo paese è precipitato. Una persona che si emoziona, che è capace di distinguere ciò che è bello e autentico da ciò che è posticcio, brutto, sarà un cittadino migliore, sarà più energico nel reagire alle ingiustizie o ai problemi della propria comunità.

Per questo, anche se il professor Talarico è un po’ patetico nel suo sentirsi ancora giovane, anche se è illegale e un po’ cialtronesco occupare insieme agli studenti, solo uno come lui può avere la folle idea di portare tutta la scuola a fare musica sul tetto, perché si ricorda l’emozione dei Beatles, e perché riscopre la gioia di condividere passione e talento.

È troppo facile, questo. Certo. Qualcuno ha storto la bocca, qualcun altro ha alzato il sopracciglio. Quasi tutti sono persone che nelle nostre scuole non mettono piede da anni.

In questo momento di crisi, rischia di passare un modello di scuola fatta per creare dei tecnici che siano docili esecutori all’interno di una macchina sociale sempre più complessa.  È una visione che mette paura, perché minimizza la capacità di condividere quello che ci rende più umani, e cioè dei sentimenti, degli ideali. Mette paura, come notava Neil Postman, perché si passa da un’oppressione esterna, alla Orwell, a una sorta di cancellazione interiore come quella descritta da Huxley ne Il Mondo Nuovo.

La scuola pubblica si fonda su un ideale di dinamismo sociale e di miglioramento dell’individuo: il suo contrario è la tv frutto della dittatura Auditel, che offre uno specchio immobile, culturalmente deprivato, un linguaggio semplificato e illusorio, dove quello che conta veramente è il colpo di fortuna, la favola del successo. Bisognerebbe dire ai ragazzi, vivete la vostra rabbia, il mondo è sempre più complesso, apritevi alle occasioni che avete per studiarlo, e rifiutate chi vi condanna alla paura e all’incomprensione di ciò che vi aspetterà in futuro.  Tutto questo i ragazzi, come il protagonista del mio film Alex, lo sentono, ma non lo sanno. Per questo dico, voi che sapete, non li lasciate soli in quelle scuole occupate. E vedrete, se sarete in molti, nessuno le distruggerà.

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