Nella girandola di ipotesi su quando ci saranno le elezioni e con quali concorrenti, di certo c’è una cosa sola: non saranno elezioni democratiche.
Il merito del dialogo che si sta svolgendo sulle pagine de “Il Fatto quotidiano” a partire dall’appello di Flores D’Arcais, è proprio quello di aver risollevato una questione che noi Radicali poniamo da quarant’anni.

Nel 1972, di fronte alla eliminazione della possibilità per i cittadini di conoscere il dibattito politico secondo regole democratiche,  bruciammo le schede elettorali e fummo per questo denunciati e processati. Alle elezioni politiche del 1983 il Partito Radicale praticò una forma di  “boicottaggio nonviolento”, presentando le proprie liste quale strumento tecnico-politico per poter informare i cittadini della illegalità della prova elettorale e invitandoli a votare scheda bianca, nulla o astenersi al fine di negare a quelle elezioni dignità e legittimità democratiche. Alle Europee del 2009 indossammo la stella gialla, lanciando un monito sulla distruzione in Italia di democrazia e Stato di diritto come effetto di sessant’anni di partitocrazia.

Vivendo una situazione di “democrazia reale”, porsi il problema delle condizioni in cui si svolgeranno le prossime elezioni è cosa seria.
Non sono d’accordo con Flores D’Arcais, però, quando ritiene che la conquista di condizioni democratiche passi esclusivamente per l’opera di un Governo, tantomeno se corrispondente a una strategia di unita nazionale che già esiste nei fatti.

In realtà,  per avviare il rientro nella legalità delle nostre istituzioni -tutte e a ogni livello fuorilegge- non serve un esecutivo bensì una lotta politica e istituzionale  che si faccia forte dell’opinione pubblica.
Limitarsi al “fuori Berlusconi” è un grave errore che nasce da un difetto di analisi.

I nemici di una televisione che si fondi su regole democratiche, di una legge elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere gli eletti e votare tra proposte politiche alternative, così come  gli amici del finanziamento pubblico dei partiti vivono e campano non solo nelle file berlusconiane.

Sono coloro che hanno affossato la volontà popolare che nel 1993 si era espressa sui referendum radicali per abrogare il finanziamento pubblico dei partiti (90% dei si) e per una riforma elettorale basata sul collegio uninominale (83% dei si).

I blitz partitocratici con cui sono state modificate a poche settimane dal voto le leggi elettorali per le Politiche del 2006 e le Europee del 2009,  hanno determinato, oltre alla restrizione artificiale della rappresentanza politica, la spartizione tra cinque partiti (PDL, Lega, Pd, IdV e Udc) del 94% dei finanziamenti pubblici erogati sotto forma di truffaldini rimborsi elettorali . Rimborsi che sono cresciuti, come ha bene ricordato oggi Il Fatto in prima pagina, dai 47 milioni di euro del 1994 ai 300 milioni del 2009.

Gli stessi cinque partiti, peraltro, si spartiscono il 90% degli spazi radiotelevisivi, altra forma indiretta di finanziamento pubblico.
Che fare? In questo momento abbiamo bisogno di saggezza, senza arrendersi alla irrazionalità.

Niente è più costoso quanto la chiusura anticipata di una legislatura; nella situazione italiana lo è ancora di  più.
Antonio Di Pietro sbaglia nel chiudersi in un atteggiamento rinunciatario votato al “tanto peggio, tanto meglio “.
“In questa legislatura non potrà mai esistere una maggioranza parlamentare tanto coraggiosa, né una manifestazione popolare può fare cambiare idea “ai mestieranti della politica”, dice il leader dell’IDV.
È probabile.

Paradossalmente, però, è proprio nei momenti di grande crisi politica che i parlamentari possono divenire più liberi.  Certo, sarebbe illusorio immaginare che lo facessero senza una mobilitazione dell’opinione pubblica che abbia come obiettivo quel rientro nella legalità che è esiziale per il Paese.

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