L’intervista a Ilaria Occhini

“Sul palco con Gassman e Flaiano: quella volta vennero a vederci in tre”

“Alla mia età si possono serenamente ricordare successi e insuccessi”

Di Malcom Pagani e Fabrizio Corallo
7 Agosto 2016

Pubblichiamo online l’intervista a Ilaria Occhini rilasciata al Fatto Quotidiano nell’agosto del 2016

 

Madre di Alexandra che da bambina riscriveva la storia del mondo con mirabile sintesi: “La regina Isabella diede a Cristoforo Colombo tre caramelle e lo mandò all’altro mondo”, Ilaria Occhini è il manifesto della minimizzazione: “Su me stessa applico un giudizio spietato. E so che a volte sono stata brava, altre media e altre ancora molto cagna. L’unica cosa che però non ho mai fatto dopo aver sbagliato un’interpretazione è stato piangermi addosso. L’attore non può permetterselo. Se una cosa va male, va male. Poi si riparte. Si riparte sempre”.

Dove sia arrivata esattamente dopo oltre 60 anni di palcoscenico e set la nipote di Giovanni Papini cresciuta tra Ardengo Soffici e Mario Luzi non sa dirlo. Nei suoi 82 anni la poesia è un panorama visto da un terrazzo, il silenzio dell’estate, una fotografia: “Ho perso con dolore quella che mi fece il signor Clarke, un famoso fotografo di Vogue. Fu pubblicata con il titolo ‘La belle italienne’ e destò l’attenzione di Robert Bresson. Ricevetti una telefonata di Donna Marella, Marella Caracciolo: “Signorina, Bresson cerca la sua Princesse de Clèves e vorrebbe incontrarla’. Avevo diciott’anni, avevo appena esordito al cinema con Luciano Emmer in Terza Liceo e mi trasferii in Francia per studiare la lingua. Fu un periodo doloroso non perché il film venne poi girato molti anni più tardi da un altro regista, Jean Delannoy, ma perché mia madre Gioconda, proprio in quei mesi, si ammalò gravemente”.

Avevate un rapporto profondo?

Lei e mio padre Barna si nutrivano di un amore che volava oltre le miserie e sembrava bastarsi. Io e i miei due fratelli li guardavamo rapiti, nel dubbio che prima dei figli, sulla vetta più alta, sventolasse soprattutto la loro avventura.

Sua madre si ammalò, ci ha detto.

Bella com’era, con i suoi occhi verdi, se ne andò prestissimo. Negli ultimi giorni di vita accolse mio padre sulla porta vestita di rosa. Ballarono un ultimo valzer nel salone di casa. Morì pochi giorni dopo.

Lei era giovanissima.

Accettare che non ci fosse più non fu facile e nell’assenza mi vennero in mente le immagini della mia educazione sentimentale con lei. Le prime sorprese, le prime consapevolezze. Io e lei che andiamo a cercar lucciole in campagna, ne troviamo una e tornate a casa la mettiamo sotto un bicchiere. Al mattino dopo in quel bicchiere trovai una lira. Mi sembrò utile ripetere l’esperimento da sola. Ma il giorno dopo, al posto dei soldi, c’erano solo tre lucciole rinsecchite.

Grande delusione.

Cresci soltanto facendoti delle domande e dandoti le risposte che non sempre ti consolano.

Il teatro e il cinema rappresentavano delle risposte?

Il teatro che era stato un grande divertimento ai tempi della scuola elementare, arrivò con l’Accademia d’arte drammatica. Fino ad allora non sapevo ancora esattamente che mestiere avrei fatto, ma a Firenze conobbi Valerio Zurlini e me ne innamorai.

Che uomo era?

Sfuggente, seduttivo, intelligente, colto, amante delle arti, vagamente aristocratico. Non un grande regista, se posso dirlo. Quasi tutto quel che ha girato, tranne Il deserto dei Tartari, è abbastanza modesto.

È ricordato come uno dei grandi sottovalutati del cinema italiano.

Ma la morte ammanta il ricordo di gentilezza e lo trasforma. Nell’assenza siamo tutti bravi, belli e senza peccati. Con Zurlini, che era un farfallone, la storia d’amore finì male. Mi aveva chiesto di sposarlo, ma continuava a sedurre in giro per l’Europa. Mario Missiroli, un vero amico, mi aprì gli occhi: “Ma come Ilaria, veramente non sai?”. Il cornuto si sa, è sempre l’ultimo a saperlo.

E come reagì?

Raggiunsi la riviera adriatica dove Valerio stava girando e gli tirai uno schiaffo davanti all’intera troupe. Soffrii. A Zurlini comunque devo qualcosa. A consigliarmi di seguire una vera e propria scuola a Roma fu lui.

E lei diede retta?

Nonostante le titubanze di mio nonno Giovanni Papini, a cui l’idea di sapermi lontana da casa non piaceva per niente, provai a farmi ammettere all’Accademia d’arte drammatica. Superai – per un miracolo credo – il provino e grazie anche all’omaggio del nonno, venticinquemila lire al mese, mi ritrovai nella Capitale a frequentare le lezioni quotidiane con allievi che sarebbero presto diventati famosi. C’erano Gian Maria Volonté, Luca Ronconi e Missiroli. A Mario domandai se conoscesse certi editori antichi amici della mia famiglia, i Casini e lui giocando sull’equivoco e sorridendo mi disse che i casini li conosceva e anche in maniera sufficientemente approfondita.

E Volonté?

Gian Maria era povero in canna e senza dimora. Per dormire si era ricavato una specie di stanza tra le intercapedini all’interno della stessa Accademia.

Tra gli allievi che ha citato, il suo amico più grande fu Ronconi.

Una sorta di fratello perché è così che accade: quando due persone si trovano, si trovano. Luca era un genio come regista ed era anche bravissimo a interpretare tutti i ruoli per i suoi attori durante le prove, a patto che non recitasse poi in uno spettacolo. In quei casi, per ragioni imperscrutabili, si rivelava un cane che non si può immaginare. Per il resto era molto spiritoso e anche un po’ cattivello, qualche volta, affidando ad altre la parte che sognavo per me, mi ha fatto soffrire.

La popolarità giunse con gli sceneggiati televisivi.

Gli sceneggiati, spesso tratti da grandissimi romanzi, furono una rivoluzione. Erano seguiti da milioni di spettatori e garantivano un’immediata riconoscibilità. Un giorno accompagnando una mia compagna di Accademia, Bianca Galvan, a un provino per L’Alfiere di Alianello, venni notata da Anton Giulio Majano: “Ma lei, signorina, il provino non l’ha sostenuto?”. Risposi a un paio di domande senza capire che quelle poche parole erano di per loro già una prova. Pochi giorni dopo mi telefonò l’ufficio scritture della Rai e venni assoldata per una parte secondaria. All’Accademia non la presero benissimo. A termini di regolamento, partecipare a provini di qualsiasi genere era proibito, pena l’espulsione.

E venne espulsa?

In quell’occasione Orazio Costa e il direttore dell’Accademia, Raul Radice, decisero di graziarmi. Adottarono un altro atteggiamento quando invece chiesi ulteriore indulgenza per poter interpretare un altro sceneggiato, sempre di Majano, Jane Eyre: “Con lei siamo stati già magnanimi – mi disse Costa – esserlo ancora sarebbe imperdonabile”. Non solo venni espulsa, ma subii anche un grottesco processo pubblico in Accademia in cui si rimarcò l’indegnità del mio comportamento.

Le dispiacque?

Fino a un certo punto. Ogni tanto, la corda, la devi tagliare. Jane Eyre era una grande occasione e le grandi occasioni, come è noto, non capitano tutti i giorni.

Di lì a poco incontrò Visconti.

Sapevo che aveva visto Jane Eyre e che stava preparando due spettacoli importanti: L’impresario delle Smirne di Goldoni e Uno sguardo dal ponte di Miller. Presi coraggio e telefonai a Paolo Stoppa: “Puoi aiutarmi a entrare in contatto con Visconti?”. Stoppa fu squisito e mi diede una mano. All’incontro previsto arrivai in ritardo. Temevo una reazione violenta, ma Luchino fu soave. Ebbi entrambi i ruoli e di lì a poco partimmo in tournée. Alla prima veneziana andai malissimo. Ero bloccata, insicura e certa di aver deluso Visconti per sempre. Lui fu paterno. E il resto dell’avventura fu magnifica.

Visconti era bifronte: tanto gentile con lei, quanto aspro con tanti altri protagonisti dello spettacolo di allora.

Ma Luchino, lo so, sapeva essere anche tremendo. Il povero Gabriele Antonini, subentrato a Corrado Pani in Uno sguardo dal ponte ne passò di tutti i colori. Un giorno proviamo con Antonini e Luchino, nervosissimo, lo tormenta: “Puoi alzare la voce? Non si sente niente”. Antonini alza il tono e Visconti lo rimproverà nuovamente: “Ho detto di alzare la voce, non di urlare, cretino”. Si andò avanti per un’ora. Un vero orrore.

Toccava anche a lei?

A dire il vero no, ma una volta, sempre con Antonini, la vessazione a suoi danni mi sembrò così ingiusta che sentii il bisogno di intervenire in suo aiuto. Visconti, tra il caustico e l’irritato si voltò impercettibilmente dalla mia parte: “Adesso anche le pulci hanno la tosse”. Scoppiai a piangere. Visconti, che sapeva essere ironico non si scusò, ma mi fece tornare il sorriso: “Hai messo troppo mentolo, cara”.

Visconti era molto legato ad Alain Delon, con cui lei recitò in Due contro la città.

Ma io Alain me lo ricordo soprattutto ai tempi dell’amore pazzo con Visconti. Nella casa di Luchino i due si erano trasformati in due piccoli padroncini, in due satrapi. Assistetti a una scenata orrenda fatta a un cameriere che portò a Delon la bevanda sbagliata. Alain urlava insulti, Luchino rincarava la dose. Anni dopo, sul set del film che ricordavate, Delon passava il tempo a parlare di donne con Jean Gabin e Luchino, letteralmente, non voleva neanche sentirlo nominare. Cambiava subito discorso. Doveva essere successo qualcosa di grave.

A 82 anni si ricordano più volentieri i momenti gloriosi o gli insuccessi?

Entrambi, in democratica alternanza. Il tonfo di Un Marziano a Roma, ad esempio, non l’ho più dimenticato. Sulla carta io, Gassman, per l’occasione anche regista, e l’autore Ennio Flaiano, appena reduce dal trionfo de La dolce vita, qualcuno a teatro avremmo dovuto portarlo..

E invece?

Un disastro. La prima milanese fu grottesca. Il pubblico gelido. A fine rappresentazione, Vittorio ebbe la triste idea di animare un dibattito con il pubblico presente. Fu un massacro. Gente che insultava, protestava, non capiva. Qualcuno si rivolse a Flaiano: “Non ho mai sentito prima d’ora il suo nome e spero di dimenticarlo in fretta”. Su quell’inatteso flop, Ennio disse una delle sue frasi famose: “L’insuccesso mi ha dato alla testa”.

Come era potuto accadere?

Lo spettacolo era brutto. E se brutto vi sembra un’esagerazione, diciamo almeno che non era bello. Non puoi mettere in fila per due ore le battute di Flaiano senza un’elaborazione di nessun tipo. Flaiano era acuto e divertente, ma forse a volte godeva di una stima esagerata. Lo spettacolo comunque andò talmente male che chiudemmo per mancanza di spettatori. A Torino ne vennero tre. Mettemmo in piedi in fretta e furia un modesto Edipo Re. Interpretai Giocasta. Visconti ironizzava: “Ilaria, ma sei diventata la mamma di Gassman?”.

Del grande mattatore che memorie conserva?

Era un uomo molto complicato, con crisi depressive che lo tormentavano fin da giovane e che a tratti ritrovava la simpatia guascona che riconoscevi sullo schermo. L’avevo visto anche felice per l’affetto della gente, Gassman. In giro per l’Edipo Re viaggiavamo sempre insieme. Spesso in treno. Una volta prendo sonno e dopo uno scossone riapro gli occhi e vedo ’sto cretino che allargando le braccia saluta la folla: “Ma Vittorio, chi credi di essere il Papa?”.

Di Mastroianni, con cui divise il palco del Sistina nel musical Ciao Rudy, invece cosa ricorda?

Il fastidio di Raffaele, mio marito, che alle cene post spettacolo non veniva mai: “È un po’ troppo Rudy, per i miei gusti, il vostro Marcello, godetevelo voi”.

Con La Capria l’amore dura da più di 50 anni.

Lo conobbi a Positano, in gita, viaggiando da Roma con Franca Valeri, Peppino Patroni Griffi e Nora Ricci. Nora che una certa infatuazione per Raffaele doveva averla avuta mi mise in guardia e in barca, vedendo che lo osservavo, disse una frase perfida.

Cosa disse?

“Il modellino è perfetto, adesso la candidata lo sviluppi a grandezza naturale”. Intendeva dire che Raffaele era troppo basso per me, ma non le diedi retta e non ci feci caso. Della statura non mi importava nulla perché per me, ai miei occhi, Raffaele era perfetto. Spiritoso, profondo e leggero al tempo stesso. Non si considerava un intellettuale e anzi degli intellettuali pensosi diffidava. Dudù era quello che era. Uno scrittore che avrebbe presto vinto il Premio Strega, una figura rispettata. Ma che facesse parte di una società letteraria o si sentisse parte di un mondi di eletti, questo no.

La Capria era sposato.

Veniva da un altro matrimonio e non fu tutto semplice. Per strada ci chiamavano bigami. Nostra figlia, per ragioni legali, dovette nascere a Londra. Di sicuro nei primi anni non ci siamo annoiati. E anche se le cose cambiano, neanche dopo. Abbiamo saputo conservare la nostra rispettiva autonomia, senza soffocarci. Indipendente in fondo sono sempre stata. Me lo ricordo ancora Raffaele, affacciato in via Nicotera, mentre mi osserva dall’alto con un casco in testa e il tettuccio della macchina aperto sul sole di Roma.

Da dove veniva?

Avevo portato da Milano a Roma una spider di seconda mano che avevamo acquistato. Un’impresa. All’epoca l’Autostrada del Sole non esisteva e il viaggio era un’Odissea. Ancora oggi non so come abbia avuto il coraggio di farcela.

Lei e La Capria alla fine vi sposaste.

In una chiesa romana, dietro Piazza Venezia. Goffredo Parise fu uno dei testimoni. Oggi sento dire tante cose, ma la verità è che era cattivello anche Parise. Ed era cattivo perché gli piaceva esserlo.

Con lei la vita è stata cattiva?

Direi che è stata molto generosa. Non posso essere davvero soddisfatta del mio rapporto con il cinema, ma non me ne cruccio. Sono stata largamente ricompensata nella terza età con un Pardo d’oro a Locarno per Mar Nero di Federico Bondi, un bravo regista a cui non hanno fatto fare più nulla e un David di Donatello per Mine Vaganti di Ozpetek. Ferzan è terribile, però è bravo.

Terribile come?

Non gli va bene mai niente, è un perfezionista. Con lui è tutto a togliere, tutto a levare. Guai se provavi a dire una battuta non prevista o peggio ancora a improvvisare. Una maniacalità simile l’ho vista solo con Bresson.

È un complimento?

Un grande complimento.

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