Burkini: il divieto è lecito, ma non contro l’Islam

22 Agosto 2016

Nella balneare e battaglia d’opinione sul burkini è forte la tentazione di abbracciare un approccio pragmatico: vietare il burkini è una decisione autoritaria che non servirà certo a scoraggiare l’atavica subordinazione femminile nella cultura musulmana e anzi finirà con l’apparire un atto di ostilità verso l’Islam, che accrescerà il risentimento verso la cultura e la politica occidentali. Seguendo quest’approccio, l’emancipazione femminile nel mondo musulmano dovrà far seguito esclusivamente a un cambiamento sociale spontaneo interno, che il resto della comunità politica non potrà che attendere in rispettoso silenzio, consentendo nel frattempo anche alle donne arabe più religiose e tradizionaliste una nuotata nel Mediterraneo.

Il punto di vista pragmatico sul burkini è ragionevole, ma io credo che nel complesso sia sbagliato: vieta allo Stato di farsi parte attiva nel promuovere un mutamento sociale così importante come quello che riguarda la parità di genere. Per quale ragione lo stato dovrebbe rimanere neutrale e assistere alla riproduzione di un’evidente discriminazione di genere? Perché non può essere l’autorità politica a promuovere l’abbattimento di una disparità così visibile? Non in nome di una fantomatica ideologia laicista, ma in quello dell’impegno a perseguire valori universali (e non occidentali, né tantomeno cristiani) nei quali ogni cittadino di una democrazia può e deve riconoscersi. L’eguaglianza tra uomini e donne è certamente uno di questi.

Vi sarebbero laicismo ideologico e totalitarismo etico solo se lo Stato, come avveniva ad esempio nell’Albania di Hoxha, promuovesse l’ateismo, scoraggiasse i cittadini dal recarsi nei templi o dal seguire i precetti delle diverse religioni. Ma non è questo quello che è avvenuto in Francia negli ultimi anni con i provvedimenti che hanno limitato l’esibizione di simboli religiosi negli spazi pubblici. La legislazione francese non ha mai scoraggiato l’appartenenza religiosa, ma ha solo impedito che l’esibizione ostentata di simboli identitari (dalle croci alle kippah, ai veli e oggi ai burkini) divenisse un’offesa alla civile convivenza, trasformandosi in un tentativo di occupazione e conquista di un ambito (lo spazio pubblico) che deve rimanere comune e condiviso.

La cultura della laicità francese non merita molte delle critiche che le sono state mosse, ma dovrebbe essere esportata rapidamente in altri luoghi d’Europa. Per scoraggiare la discesa lungo quel piano inclinato che porta, nel nome di un malinteso multiculturalismo, ad accettare un numero crescente di eccezioni al rispetto dei valori fondanti della convivenza sociale. Si inizia con l’accettare il burkini e si finisce con il trangugiare la schiavitù. Sempre in nome del rispetto per la diversità culturale. Una deriva da evitare, ad esempio, ispezionando con attenzione, e sempre seguendo l’esempio di una legge francese del 2001, la vita interna delle tante organizzazioni settarie proliferate nel cristianesimo occidentale nell’ultimo mezzo secolo.

“Ma le donne musulmane che vanno in spiaggia in burkini scelgono di farlo liberamente, perché lo ritengono giusto”. Con questo argomento dal pragmatismo si passa a un’istanza genericamente liberale che prevede il rispetto per le scelte altrui compiute in piena coscienza e liberamente maturate. Il principio è giusto, ma siamo sicuri che si possa applicare a questo come ad altri casi nei quali le pressioni culturali e psichiche a conformarsi agiscono con forza inaudita?

E anche se si trattasse di una scelta apparentemente libera da parte delle donne musulmane, non potremmo concludere che si tratta di uno degli innumerevoli casi storici nei quali le persone compiono delle scelte lesive della loro dignità umana e contrarie ai loro interessi a non essere discriminate? Non possiamo considerarle vittime di quella stessa subordinazione psicologica e culturale che ha fatto sì che tanti dei nostri avi braccianti poveri e ignoranti accettassero come parte dell’ordine naturale e volute da Dio le tante umiliazioni che subivano dai potenti? Erano davvero libere, in un altro contesto culturale e religioso, le donne che “volontariamente” si gettavano nella pira dove ardeva il cadavere del coniuge? Sono libere le donne che si sottopongono “volontariamente” alla mutilazione genitale?

Il no al burkini appare quindi comprensibile e sostanzialmente giusto. A patto che sia accompagnato da motivazioni razionali e non da una forma di discriminazione verso l’Islam o dal tentativo di ingraziarsi le simpatie dell’elettorato lepenista in vista delle elezioni presidenziali. Perché sia così è necessario che si accompagni ad una lotta verso tutte le altre forme di discriminazione (economica, politica, culturale, materiale e simbolica) delle donne e di qualsiasi altro gruppo sociale, in qualunque contesto (non solo religioso).

Quel programma semplice, ma straordinario presentato a Parigi nel 1789 è ancora lontano dall’essere realizzato.

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