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Donald Trump, a un anno dall’elezione. Obamacare, muro col Messico, lavoro: le promesse e cosa ha fatto davvero - 6/6

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RUSSIAGATE, LA BATTAGLIA CON I MEDIA E QUELLA COI REPUBBLICANI 
Come si diceva, l’impatto forse più forte del primo anno di presidenza sta nel nuovo stile di comunicazione inaugurato alla Casa Bianca. E, in questo caso, si può sicuramente dire che la forma corrisponda alla sostanza. In campagna elettorale, Trump aveva costantemente attaccato Washington e le élite politiche, economiche, giornalistiche, con un messaggio rivolto direttamente all’elettorato e centrato sul ritorno al passato, a un’America “ancora grande”, meno coinvolta nei fatti del mondo. Si pensava che questa strategia sarebbe stata abbandonata, o almeno attenuata, non appena Trump fosse arrivato a Washington. Non soltanto ciò non è avvenuto; ma, se possibile, il nuovo presidente ha accentuato gli aspetti più aggressivi della sua comunicazione.

Con un uso diretto e non mediato di Twitter, con un appello ancora diretto ai suoi elettori, Trump si è lanciato in una guerra pressoché continua con larghi settori delle istituzioni e degli apparati di sicurezza (sino ad accusare FBI, CIA e le altri agenzie di intelligence di usare mezzi di diffamazione nazista contro di lui). La battaglia sul Russiagate ha fatto precipitare i contrasti. Quasi l’intero mondo dell’informazione è stato accusato di diffondere fake news (con l’eccezione dell’adorata e più volte presa come esempio Fox News). All’ordine del giorno sono stati i contrasti e i licenziamenti dalla sua amministrazione: da Mike Flynn a Steven Bannon a Tom Price a Reince Priebus a Sean Spicer ad Anthony Scaramucci.

La polemica politica è stata brutale non soltanto con i democratici, pressoché compatti nella loro opposizione, ma anche con i repubblicani, che in più di un’occasione hanno cercato di prendere le distanze dal presidente. Il candidato del G.O.P. alla carica di governatore della Virginia, Ed Gillespie, non ha praticamente mai nominato Trump in campagna elettorale. Il ciclone Trump ha travolto e trasformato il partito repubblicano, con l’uscita di scena di esponenti più tipici delle tradizioni classiche del conservatorismo americano (da Jeff Flake a Bob Corker) e l’ascesa di una classe politica apertamente reazionaria (per esempio, Roy Moore in Alabama).

Questo processo ha destato molta preoccupazione nel partito – George W. Bush ha per esempio detto di temere che “questo sarà l’ultimo presidente repubblicano” – e più in generale ha rilanciato le “guerre culturali” e inasprito la diffidenza nei confronti della politica e di Washington. Lo stato di continua crisi non sembra però aver giovato nemmeno a Trump. Il suo indice di popolarità viaggia intorno al 33%, il più basso per un presidente degli Stati Uniti da decenni.

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