Se nella cultura tracia il tatuaggio esprimeva i valori elitari e i meriti sociali di un individuo, in quella disabile è la quantità di tecnologia al seguito a determinare il rango del sofferente (nonché il livello stesso della sofferenza). In questo ambito l’esemplare di francesino – l’affezionato alla distrofia di Duchenne – ricopre di certo i ceti più prestigiosi, poiché si colloca al secondo posto nell’Olimpo della disabilità.

I nobili intenti della tecnologia, va detto, vengono continuamente delegittimati da quei bipedi attivi soliti sostenere: “Ah, io senza tecnologia non potrei vivere“. Che affronto, poiché solo noi disabili di livello lo possiamo dire con cognizione di causa: senza di essa non potremmo proprio vivere. Per cui lasciamo a Cesare, quel che è di Cesare. La tecnologia, infatti, ha permesso di elevare la nostra speranza di vita, che faceva di noi fanalino di coda mondiale dietro a Swaziland, Mozambico e Lesotho, mentre oggi consente ai francesini di esibirsi in gesti poco urbani nei confronti di questi paesi. Bolivia, Bhutan e Kirghizistan stiamo arrivando…

Per di più, le invenzioni degli ultimi decenni consentono agli esemplari di disabile di avere vita sociale e professionale: grazie a essa Stephen Hawking può studiare i buchi neri – scopro solo adesso non aver nulla a che vedere con l’organo di riproduzione femminile, che delusione Stephen – e il sottoscritto rendere spassosa la distrofia di Duchenne.

Il nostro pellegrinaggio sui sentieri della tecnologia al servizio della sofferenza parte dalla sua più elevata rappresentante: la “sedia elettrica”, al secolo carrozzina elettrica. L’invenzione del mezzo di locomozione più popolare tra gli infermi ha permesso all’esercito dei non camminatori di poter esplorare il mondo: nello specifico uscire di casa. Se le prime sedie elettriche erano assolutamente improponibili per degli schizzinosi come i francesini – i cui vizi, come poter guidare o avere una postura utile a respirare, non potevano essere appagati -, quelle di ultima generazione vengono incontro al transalpino quanto un cagnolino quando, dopo diversi giorni, vede il suo padrone.

Infatti disponiamo di regolazione elettronica dei pedali, della seduta, dello schienale e la possibilità dei comandi ambientali (questi a prezzi impopolari). Ma soprattutto abbiamo facoltà di guidare con la testa (per i più assennati), con la bocca (per chi è meglio che taccia), con il mento (per i più fichi) e in futuro addirittura con il pensiero (sul quale discorreremo nel prossimo post), tuttavia non è dato poter guidare con l’elemento più nobile del nostro corpo, perché allora sì che le battute si sarebbero potute sprecare.

Per venire incontro alle mie qualità estetiche e di movimento (vi faccio una confidenza: un poco mi muovo, ma acqua in bocca), ho optato per quello a mento – detto Comandamento -, il quale offre l’allettante possibilità di prendere in giro il prossimo: il comando, infatti, non è altro che un braccetto culminante con un pallino sul quale il mento poggia, dando l’illusione di essere un microfono. Ed è un gioco da ragazzi far credere al prossimo che comando la suddetta sedia vocalmente. Costui rimane stupito al punto da dichiarare: “Quanti passi avanti sta facendo la tecnologia”.

Questo è il momento giusto per svelare l’arcano e far sentire la vittima presa per quella parte nobile accennata poc’anzi, dopodiché perdo ogni credibilità (come ogni giornalista che si rispetti). Tuttavia la pacchia è già finita e comincia il tratto del pellegrinaggio nel quale mi vedo costretto a mostrare l’altra faccia della tecnologia: le sue pecche e le nefaste conseguenze che ne derivano. Riprendiamo dal comandamento, il quale tempo fa si prese gioco di me (chi di burla ferisce di burla perisce): stavo guidando serenamente – spensierato come un bambino che corre su un prato in fiore – quando il comando mi cadde, nel preciso istante in cui stavo attraversavo la strada, ovviamente in mezzo ad essa.

Mentre ero in balia degli eventi, tra lo sfrecciare di una macchina e l’altra, ebbi il tempo di vedere il film della mia vita (un cinepanettone, ahimé) e di sentirmi come il buon Fantozzi. Ormai prossimo a un atroce dipartita, ecco che un’automobile si fermò: scese un buon uomo (nella sventura fui anche sfortunato: mai una bella biondina), che mi salvò da quel destino ormai segnato.

Le “(dis)avventure tecnologiche del francesino” ritorneranno tra due settimane, mentre il sottoscritto vi aspetta a braccia bioniche aperte…

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