Poco più di un anno fa su questo sito si è accesa una furibonda polemica innescata da un mio post che sottolineava l’ovvio, anche se forse in maniera un po’ troppo franca: studiare è sempre importante, ma quando si sceglie l’università è bene sapere che ci sono alcune lauree utili (a trovare lavoro, ad avere uno stipendio che permetta di mantenersi e di avere una famiglia) e altre che, nel migliore dei casi, sono divertenti o formative, un investimento che non prevede alcun ritorno concreto. E altre ancora che sono proprio inutili, perfino dannose visto che il tempo è una risorsa scarsa da non dissipare.

Si è scatenato l’assalto molto italiano di quelli che difendevano la cultura umanistica (come se io avessi criticato quella), che sostenevano, per fede e non sulla base di dati, che gli studi letterari o filosofici aprono qualunque carriera. Stabilire un legame tra disciplina di studi e percorso di carriera era indice, stando ai commenti più benevoli, di una mia aridità di spirito, di una deformazione della mia mente, sicuramente plagiata dai cinque anni che ho passato alla Bocconi. E così via.

Bene. Ora arriva un’interessante indagine dell’Istat, appena pubblicata, su I percorsi di studio e lavoro dei diplomati e laureati. Il campione è piuttosto ampio, hanno risposto 36.468 laureati del 2011, a quattro anni dalla fine del loro percorso di studi. Quindi possiamo prendere per buone – e definitive – le conclusioni di questa ricerca.

Riporto in modo letterale le parti che chiudono, spero per sempre, la polemica sulla scarsa utilità di alcuni corsi di laurea.

Primo: se scegli l’università sbagliata trovi lavoro più difficilmente.

“L’inserimento nel mercato del lavoro è più difficile per i laureati, sia di I che di II livello, nei gruppi Letterario e Geo-biologico. Lavora infatti il 61,7% dei laureati di I livello e il 73,4% di quelli di II livello del gruppo Letterario, il 58,6% dei laureati di I livello e il 76,5% di quelli di II livello del gruppo Geo-biologico. Critica è anche la situazione dei laureati di I livello nel gruppo Psicologico (lavora il 54,4%) e dei laureati di II livello nel gruppo Giuridico (lavora il 67,6%)”.

Secondo: ci sono lauree che non interessano a chi deve pagarti lo stipendio.

“Il 64,2% dei laureati di I livello e il 74,9% dei laureati di II livello dichiarano che la laurea era espressamente richiesta per accedere all’attività lavorativa mentre è stata utile rispettivamente nel 23,8% e 17,8% dei casi. La laurea sembra non premiare chi l’ha conseguita nei gruppi Letterario e Politico-sociale, dal momento che per l’attività lavorativa svolta non era richiesta e non è stata nemmeno utile”.

Magari chi ha fatto scienze della comunicazione o filosofia si sente comunque appagato, perché ha sviluppato la propria personalità, cultura e flessibilità mentale. Ma dal punto di vista professionale sembra decisamente scontento.

“Relativamente ad alcuni aspetti del lavoro svolto, i laureati di I e II livello esprimono livelli di soddisfazione analoghi. La soddisfazione è più alta riguardo al grado di autonomia e alle mansioni assegnate (7,7 e 7,6 punti rispettivamente), e più bassa per le possibilità di carriera e il trattamento economico (5,8 e 6,0 punti). I laureati di I livello nei gruppi Letterario e Psicologico manifestano su tutti gli aspetti i livelli di soddisfazione più bassi, il contrario si verifica per quelli del gruppo Difesa e sicurezza (9,2 per le prospettive di stabilità e 8,7 per il grado di autonomia)”.

La morale resta la stessa di un anno fa: se all’università chiedete di aiutarvi a entrare nel mercato del lavoro e se pensate all’istruzione come la garanzia per raggiungere un lavoro stabile e un reddito che vi garantisca indipendenza, state lontani dalle facoltà che sfornano disoccupati.

Questo non significa rinunciare alla cultura, avere la busta paga come unico orizzonte e il conto corrente come priorità. Ma visto che la scelta dell’università avviene molto presto, quando è impossibile avere già un quadro preciso delle dinamiche del mondo in cui si entrerà di lì a pochi anni, è giusto che ai diciottenni venga sottoposta l’evidenza dei numeri e non qualche convinzione priva di basi fattuali.

P.S. Lo so che l’indagine Istat contiene moltissime altre cose interessanti e che mi sono concentrato soltanto su un aspetto marginale, ma c’è tempo e modo di approfondire.

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