Come messo in luce dalla stampa di tutto il mondo, dal New York Times in poi, quello che succede in Brasile è davvero paradossale. Infatti, la presidente Dilma sta venendo messa sotto accusa, non certo per fatti di corruzione, da parte di un Parlamento pieno di corrotti, a cominciare dai due capibastone del Pmdb, partito fino a poco tempo fa alleato di governo del Pt, Cunha e Temer. Lo scopo di questi individui è duplice. In primo luogo mettersi in salvo ottenendo un salvacondotto giudiziario. In secondo luogo rispondere agli ordini di scuderia provenienti dalla  Confindustria brasiliana, e in particolare dalla sua sezione particolarmente reazionaria di Sao Paulo, stanca dei pur timidi tentativi di riforma e redistribuzione del reddito portati avanti prima da Lula e poi da Dilma. Non a caso l’accusa formulata nei confronti di quest’ultima è di aver trasferito dei fondi ai programmi sociali violando alcune norme regolamentari.

In un momento di crisi economica come l’attuale, che colpisce in Brasile come nel resto del mondo, i poteri forti, finanza e padronato, sono evidentemente del parere che non si possano destinare soldi ai poveri, rischiando pertanto di annullare gli enormi risultati dei presidenti del Pt, che sono riusciti a sottrarre decine di milioni di persone alla miseria. Non si tratta, secondo la Confindustria brasiliana, che controlla i grandi mezzi di comunicazione, a cominciare dalla potentissima Rete Globo, di una linea da perseguire. La grancassa mediatica è stata pertanto scatenata, alimentando la collera di una classe media che ha i suoi motivi di frustrazione e che torna oggi a evocare i fantasmi dei militari e dei torturatori.

Ci troviamo di fronte a un vero e proprio tentativo di golpe, che si avvale di qualche giudice compiacente e di un Parlamento pieno di corrotti e pregiudicati, al cui confronto il nostro è un circolo di persone oneste e virtuose. Tentativo di golpe perché, ricordiamo, Dilma è stata eletta con quasi cinquantacinque milioni di voti. Si tratta peraltro della stessa ricetta golpista soft già applicata con successo in Honduras e Paraguay. Dietro tale ricetta si staglia l’ombra del potere imperiale, che non si è evidentemente rassegnato alla perdita delle proprie colonie latinoamericane e sta tramando per recuperarne il controllo. La controffensiva reazionaria ha portata, in effetti, continentale e si manifesta un po’ ovunque, rovesciando o tentando di rovesciare i governi progressisti che hanno marcato una stagione democratica e di rinnovamento politico e sociale dopo gli anni bui delle dittature militari e quelli altrettanto bui del neoliberismo all’insegna delle fallimentari ricette dettate dal cosiddetto Consenso di Washington.

La lotta alla corruzione costituisce un’esigenza troppo profonda per potere essere un pretesto a manovre reazionarie che si propongono di detronizzare la sovranità popolare. In questo senso appare del tutto improprio il richiamo che taluni fanno alla stagione italiana di Mani Pulite che fu tutt’altra cosa. Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e gli altri giudici che, in tutta Italia, condussero una sacrosanta campagna giudiziaria contro la corruzione, non possono certo essere comparati a Sergio Moro e agli altri membri della magistratura brasiliana che operano come uomini di paglia di Rete Globo e della Confindustria brasiliana per porre fine a una stagione che, con tutti i suoi limiti, ha segnato grandi avanzamenti per il Brasile e per l’America latina sia sul piano interno che internazionale.

Un insegnamento che va tratto da questa vicenda è che non è possibile fermare a metà i processi rivoluzionari. Lula e Dilma si sono illusi di poter continuare a governare traccheggiando in parlamento e con il sostegno di personaggi indegni come quelli che oggi invocano il loro impeachment osannando i militari golpisti degli anni Sessanta che lasciarono in Brasile oltre cinquecento desaparecidos e praticarono in modo sistematico la tortura contro la sinistra. Un processo di rinnovamento rivoluzionario deve invece affrontare i nodi del potere e mettere completamente fuori gioco le vecchie classi dominanti. Nelle prossime settimane e mesi assisteremo senza dubbio in Brasile, come pure in Argentina e in Venezuela, a un inasprimento della lotta politica e sociale.

Vi sono segnali precisi che la maggioranza del popolo sta capendo la posta in gioco e comincia a scendere in piazza contro coloro che vorrebbero reinstaurare il vecchio regime di emarginazione e sfruttamento. Nel caso di nuove elezioni presidenziali il candidato dato per favorito dai sondaggi, non a caso, è ancora una volta, Lula Da Silva. Ma la partita si gioca, come è evidente, su vari tavoli, e dovremo far pervenire al Brasile democratico e popolare il nostro forte sostegno nell’interesse comune di un mondo diverso che è possibile e necessario.

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