Se si eccettuano alcuni articoli apparsi sulla stampa specializzata, il recente colloquio a New York fra il governatore della Banca Centrale iraniana Valiollah Seif e il segretario al Tesoro americano Jacob Lew non ha attirato l’attenzione dei media.  Lo scorso 16 gennaio l’implementation day aveva segnato la definitiva attuazione dell’accordo nucleare con la rimozione delle sanzioni americane ed europee contro l’Iran. A prima vista, quello fra Seif e Lew poteva dunque apparire come un incontro di routine fra i responsabili di due paesi i cui rapporti sono migliorati dopo la ratifica di quella “storica” intesa.

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La realtà è ben diversa. Seif si è recato a New York proprio per lamentare la scarsa collaborazione di Washington nell’applicazione dell’accordo, dopo che una serie di dichiarazioni dello stesso tenore erano state rilasciate dalla Guida Suprema Ali Khamenei. Le banche iraniane stanno incontrando enormi ostacoli nell’effettuare transazioni internazionali, e Teheran non è stata in grado di rimpatriare gran parte dei circa 100 miliardi di dollari che erano rimasti congelati in conti esteri prima dell’abrogazione delle sanzioni. La riammissione degli istituti iraniani nel circuito finanziario internazionale e l’accesso ai beni congelati all’estero sono due elementi cardine dell’intesa entrata in vigore a gennaio.

La replica americana non è stata incoraggiante: l’addetto stampa della Casa Bianca ha affermato che gli Stati Uniti stanno ottemperando ai loro obblighi sanciti dall’accordo, mentre il sottosegretario al Tesoro ha osservato che tocca all’Iran attirare capitali e investitori, e che l’intesa nucleare è “una convenzione internazionale, non un assegno circolare”. Ma se le sanzioni relative al programma nucleare sono state rimosse, cos’è che non sta funzionando? Il problema è il seguente: l’accordo che pochi mesi fa era stato salutato trionfalmente dalla stampa internazionale affronta solo la diatriba legata al nucleare iraniano, ma non la storica inimicizia fra Teheran e Washington.

A causa di tale inimicizia – risalente alla Rivoluzione Islamica che nel 1979 sottrasse l’Iran alla sfera d’influenza americana in Medio Oriente – gli Usa hanno imposto all’Iran un sistema di sanzioni che si è stratificato con il passare degli anni. Solo una parte di questo sistema sanzionatorio riguardava il programma nucleare, mentre altre penalità sono legate al presunto sostegno iraniano al terrorismo, alla grave situazione dei diritti umani nel paese, e ad altri aspetti. Questo secondo tipo di sanzioni rimane in vigore, e impedisce tuttora all’Iran di accedere al sistema finanziario degli Stati Uniti e alla valuta americana.

Teoricamente le banche europee, a differenza di quelle statunitensi, possono fare affari con Teheran in base all’accordo nucleare. Ma siccome il dollaro è la valuta di riferimento nelle transazioni internazionali, e molte grandi banche europee operano a livello globale tramite le loro filiali negli Stati Uniti, o comunque interagendo con il sistema finanziario americano, di fatto esse sono scoraggiate dal compiere transazioni con l’Iran per il timore di incorrere nelle sanzioni di Washington tuttora in vigore. In altre parole, grazie alla posizione di preminenza del sistema finanziario statunitense a livello mondiale, e al fatto che il dollaro gode dello status di valuta di riserva internazionale, le sanzioni tuttora applicate da Washington non solo agiscono su imprese e banche statunitensi, ma influenzano pesantemente il comportamento degli istituti finanziari in Europa e altrove nel mondo.

I timidi tentativi dell’amministrazione Obama di porre rimedio a questa situazione, facendo in modo che l’Iran usufruisca dei vantaggi promessi dall’accordo nucleare, finora sono stati bloccati da un Congresso che rimane profondamente ostile a Teheran. In questo quadro, appare dunque notevole la mossa ufficializzata dall’Italia con la recente visita del premier Renzi a Teheran. Cassa depositi e prestiti, insieme a Sace, ha infatti aperto linee di credito e “trade finance” per quasi 5 miliardi di euro nei confronti dell’Iran, proprio per venire incontro alle difficoltà di finanziamento che il paese sta incontrando a livello internazionale.

La scelta compiuta da Roma, che non ha precedenti in Europa, ha fatto guadagnare all’Italia lo status di interlocutore europeo privilegiato di Teheran. Lo testimonia il calore con cui Renzi è stato accolto dai responsabili iraniani, e soprattutto il fatto che egli sia stato ricevuto da Khamenei, cosa del tutto eccezionale per un capo di governo occidentale. La mossa compiuta dal nostro esecutivo è inusuale per lo stesso Renzi, che non ha mai nascosto la sua grande amicizia per Israele, e in passato non ha risparmiato aspre critiche alla Repubblica Islamica. Quella italiana rimane comunque una scommessa: Roma potrebbe fare da apripista ad altri paesi europei, ma potrebbe anche rimanere isolata.

La riammissione dell’Iran nel sistema economico mondiale non è scontata alla luce delle resistenze americane. I negoziati per sbloccare la situazione proseguono fra la Casa Bianca e il governo iraniano. Ma se lo stallo dovesse protrarsi, potrebbe addirittura portare al fallimento dell’accordo nucleare. E ciò probabilmente comporterebbe anche la sconfitta delle forze moderate guidate da Rohani in Iran. Le conseguenze sarebbero pesanti per tutti.

di Roberto Iannuzzi è autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale (Twitter: @riannuzziGPC)

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