mobbing

di Francesca Garisto*

Il mobbing, fenomeno considerato una vera e propria “disfunzione lavorativa”, in Italia non è disciplinato da una legge specifica, tanto in ambito civile che penale.

Il codice civile dà la possibilità di tutelare le vittime di mobbing solo con il ricorso a norme generali, come quella che riguarda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro che lo obbliga a tutelare la sicurezza psico-fisica del lavoratore (art. 2087 c.c.), o quella che riguarda la responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., che prevede il diritto del lavoratore al risarcimento di qualunque danno ingiusto subìto sul luogo di lavoro.

Invece, nell’ambito penale, l’assenza del reato specifico di mobbing rende necessario fare ricorso ad altre figure di reato per tutelare la vittima: secondo la giurisprudenza degli ultimi dieci anni, è possibile fare riferimento ai reati di ingiuria (art. 594 c.p.), diffamazione (595 c.p.), abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.), fino al più grave reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) estorsione (art. 629 c.p.) e maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p).

In particolare la fattispecie dei maltrattamenti in famiglia, nonostante sia stata ideata, già dal nome, per tutelare soprattutto la famiglia, rappresenta la figura di reato più vicina alla condotta di mobbing, poiché punisce “chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità (…)” con la reclusione da due a sei anni.

Occorre però che il comportamento vessatorio sia sistematico, con le caratteristiche oggettive di una persecuzione e discriminazione ripetute nel tempo, e che sia sorretto dalla consapevolezza di determinare nella vittima uno stato di sofferenza tale da rendere penosa la permanenza sul luogo di lavoro.

La sistematicità delle vessazioni può consistere in una serie di comportamenti, tristemente familiari alle vittime di mobbing, come l’isolamento, lo scherno, l’attribuzione di incarichi meno qualificati o il demansionamento. Singolarmente, nessuno di questi avrebbe rilevanza penale, ma la assumono tutti insieme, proprio in quanto finalizzati allo svilimento della dignità e personalità del lavoratore. Può consistere però anche in comportamenti che costituiscono reato di per sé, e che possono essere perseguiti autonomamente, come i reati di violenza privata, ingiurie, minacce, percosse o diffamazione. In questo caso, il giudice penale riterrà la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia se saranno presenti anche gli altri requisiti di cui si è detto, rimanendo “assorbiti” i singoli reati in questa più grave figura di reato.

La Corte di Cassazione ha individuato un altro importante requisito nel rapporto di “para-familiarità” tra i soggetti coinvolti, nel senso che, pur non rientrando nel contesto tipico della famiglia, il rapporto fra il mobber e la sua vittima deve comportare una relazione abituale e consuetudinaria di vita, come nel caso del capogruppo con i venditori, della segretaria con il suo capo, dell’insegnante con il dirigente scolastico, poiché è solo in una simile vicinanza che può profilarsi, attraverso la svilimento e l’umiliazione del soggetto che subisce, l’ipotesi di reato di maltrattamenti (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 6/2/2009, n. 26594).

A dare una “spallata” all’impianto faticosamente costruito dalla giurisprudenza penale per contrastare questo tipo di condotte, giunge la recente riforma del diritto del lavoro che, con l’introduzione delle nuove norme sul licenziamento, dei controlli a distanza e della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. in tema di “demasionamento facile”, offre al mobber un nuovo strumento di pressione nei confronti dei lavoratori. La possibilità di controllarli più o meno indiscriminatamente, di destinarli a una mansione “inferiore”, declassarli di livello anche per mezzo di un contratto collettivo aziendale, trasferirli in un reparto senza l’adeguata formazione oppure indurli a firmare nelle sedi protette una nuova e fortemente peggiorativa regolamentazione del rapporto, offrirà al potenziale mobber uno strumento di ricatto e vessazione particolarmente intenso, che consentirà di raggiungere lo stesso obiettivo persecutorio senza commettere alcuno dei diversi reati di cui abbiamo accennato.

Questo non significa che il reato di maltrattamenti in famiglia non riuscirà più a intercettare la condotta persecutoria del mobbing. Quando i comportamenti sopra descritti sono associati ad altri che rivelano il dolo, ovvero, la coscienza e la volontà di ledere l’integrità fisica e morale dei lavoratori, e quando sono protratti per un lasso di tempo apprezzabile, potranno integrare il reato di maltrattamento.

Resta il fatto però che la prova nel giudizio penale circa l’intento vessatorio dell’autore del mobbing non sarà per nulla facile dopo la modifica dell’art.2103 c.c. introdotta dal Jobs act. Basti considerare che prima della modifica il demansionamento rappresentava, per il solo fatto di costituire violazione della normativa lavoristica, un valido elemento dal quale poter desumere l’intento vessatorio e pertanto l’esistenza del dolo richiesto per integrare il reato di maltrattamento.

Allo stesso tempo, ragioni di organizzazione ed economia aziendale costituiranno facile argomento di difesa per giustificare in giudizio le condotte mobbizzanti realizzate attraverso il demansionamento.

Insomma, con le nuove norme introdotte dal Jobs act si correrà il rischio di limitare il rimprovero penale ai comportamenti vessatori più “visibili”, autonomamente considerati, spesso costituiti da ipotesi di reato incapaci di cogliere la natura unitaria del fenomeno, quali aggressioni verbali, ingiurie, diffamazioni o percosse, rimanendo sommersa la complessiva trama di maltrattamento ed esclusione perseguita dal mobber.

Resta l’auspicio che riprenda al più presto la discussione in Parlamento dei diversi disegni di legge presentati nelle precedenti legislature ed anche nella presente destinati a dare una adeguata tutela normativa al mobbing.

*Avvocata penalista, consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle Donne Maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro. Svolge la libera professione e ha studio in Milano.

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