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“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.

Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni.

Il punto è la ricetta. Corbyn non si fida del mercato, sostiene però che la ricetta dei conservatori è sbagliata: non si produce crescita tagliano le tasse ai ricchi e alle imprese affidandosi all’idea che, con i giusti incentivi, il mercato genera innovazione e prosperità. Le sue proposte sono da socialdemocratico, più che da rivoluzionario: contesta al governo Cameron di aver ridotto la tassa di successione per i patrimoni elevati, un intervento da 2,5 miliardi di sterline che va a beneficio solo del 4 per cento della popolazione. Idem per la scelta sulla tassa sul reddito d’impresa: è stata ridotta al 20 per cento, la più bassa del G7, “perfino più bassa del 25 per cento in Cina e la metà del 40 per cento negli Stati Uniti”. Anche qui 2,5 miliardi di gettito in meno.

Corbyn sostiene, e ha i suoi argomenti, che dietro l’ossessione dei conservatori per l’austerità non ci sono conti pubblici insostenibili, ma la vecchia ideologia thatcheriana che più piccolo è lo Stato, meglio funziona l’economia. Se proprio si vuole ridurre il deficit, dice Corbyn, facciamolo alzando le tasse: lo spazio di manovra c’è eccome. Addirittura il leader labour scrive di condividere l’obiettivo del cancelliere dello Scacchiere Osborne di azzerare il deficit nel 2020. Ma in modo diverso, stimolando con investimenti una crescita equa e diffusa invece che con tagli al welfare. Sul Financial Times il capo dei commentatori economici Martin Wolf ha scritto che “non si può avanzare nessun argomento forte per tagliare la quota della spesa pubblica sul Pil ai suoi libelli più bassi in 70 anni entro il 2019-2010, per mantenere un avanzo di bilancio in tempi normali o per abbassare contemporaneamente i benefici per i lavoratori poveri e la tassa di successione. E’ il lavoro della sinistra sfidare queste scelte”.

Un gruppo di economisti, non tutti sostenitori di Corbyn, hanno firmato sul Guardian un appello chiedendo di smetterla di raccontare fandonie sul suo conto: “La sua opposizione all’austerità non è altro che l’economia mainstream, sostenuta perfino dal conservatore Fondo monetario interazionale. Lui vuole spingere la crescita e la prosperità e ha votato contro il vergognoso disegno di legge di 12 miliardi di tagli al welfare”. Tra i firmatari Mariana Mazzucato, economista italiana che insegna in Sussex ed è la principale voce a favore degli investimenti pubblici. La promessa di nuovi investimenti, per la verità, è la parte più scivolosa del programma di Corbyn perché si regge sull’idea di un “quantitative easing per il popolo” invece che per le banche. Secondo quanto si è capito, l’idea del deputato laburista è che la Banca d’Inghilterra usi la sua liquidità e l’espansione del suo bilancio per finanziare investimenti pubblici invece che per comprare titoli sul mercato e dalle banche così da abbassare i costi di finanziamento. Una agenzia degli investimenti emetterebbe bond da usare per finanziare poi opere pubbliche e quel debito sarebbe comprato dalla Bank of England, privata, si suppone, di ogni indipendenza (come? È giuridicamente possibile? Boh). Non è detto che funzioni e che sia politicamente percorribile. Ma non è neppure detto che sia peggio della linea seguita dal governo Cameron: le ultime previsioni economiche della Commissione europea sottolineano – con una velata preoccupazione – la linea di sviluppo scelta dai conservatori. Cioè incentivare gli inglesi a risparmiare per comprarsi una casa. Che in un Paese reduce da una bolla immobiliare non è forse la scelta più saggia.

Discorso diverso sulla parte fiscale, quella che spaventa i giornali conservatori sensibili alle esigenze dei grandi gruppi finanziari. Nella parte sulla “giustizia fiscale”, Corbyn spiega di voler aumentare il prelievo fiscale di 120 miliardi di sterline all’anno. Soprattutto combattendo evasione e elusione fiscale, oltre che migliorando la capacità di riscossione del fisco. Primo passo: aumentare lo staff delle agenzie incaricate di raccogliere le imposte. Poi, certo, vuole anche far pagare più tasse. Ma il grosso delle entrate della Corbynomics derivano dalla scelta di impegnarsi di più a ottenere quanto già dovuto. I ricchi, comunque, dovranno pagare di più: “Il punto principale con cui si deve confrontare la politica britannica è se l’aliquota fiscale più alta (in realtà tax rate, cioè il peso del fisco, ndr) deve essere del 25 o del 50 per cento o invece del 18 o del 20 per cento”. Parole che, è comprensibile, hanno suscitato un certo panico in un Paese che è di fatto un paradiso fiscale al centro dell’Europa.

Le soluzioni di Corbyn sono, insomma, radicali ma di buon senso. Non certo meno radicali di quelle dei conservatori di David Cameron, che stanno smantellando il welfare mentre aiutano le imprese per ragioni ideologiche, non economiche. Sempre Martin Wolf del Financial Times evoca un parallelo tra Corbyn e il primo Tony Blair, a inizio degli anni Novanta: una sinistra che fa una diagnosi del mondo e delle sfide che ha di fronte e propone soluzioni drastiche, invece che limitarsi a piccoli aggiustamenti al margine.

Tutt’altra storia rispetto a Tsipras che ha vinto le elezioni senza avere alcuna possibilità di mantenere le demagogiche promesse della campagna elettorale. E che, con un misto di ingenuità, idealismo e furbizia tattica mista a ottusità strategica, ha congelato i rapporti tra Unione europea e Atene per mesi e mesi.

Tsipras è un leader che non poteva perdere ma che neppure poteva governare. Corbyn, almeno per ora, sembra un leader che non può vincere ma che avrebbe idee molto interessanti da vedere applicate. Troppo presto per immaginare come finirà. Ma il rosso del nuovo capo dei laburisti è decisamente più carico e convinto di quello di Syriza in Grecia. E la scommessa della sinistra inglese molto più interessante.

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