Se chiedeste a un banchiere centrale di immaginare la stanza 101 del ministero dell’Amore – quella dove nella distopia orwelliana si materializza la paura assoluta – forse vi risponderebbe che è il luogo dove il tasso di sconto nel cuore della notte viene pompato di 650 punti base per tamponare una virulenta crisi valutaria in cui sono state bruciate riserve per 80 miliardi di dollari. E dove il giorno dopo la moneta crolla di un altro 20 percento, nonostante un accorato appello in televisione.

Da martedì scorso questa stanza 101 è l’ufficio di Elvira Nabiullina, governatrice della Banca centrale russa che ha visto il dollaro scambiato fino a oltre 80 rubli. Il terrore non è rimasto confinato tra le pacchiane volte del santuario del rublo, ma ha ghermito anche l’aspirante Grande Fratello del Cremlino da mesi ormai in scacco sul piano militare in Ucraina, ma soprattutto colpito ripetutamente sotto la linea di galleggiamento economico dal deprezzamento delle materie prime. Se Putin finisse nella polvere, per la terza volta in meno di trent’anni un potere assoluto a Mosca si dissolverebbe per le ripercussioni dei prezzi energetici.

Successe a Mikhail Gorbaciov (che si trascinò l’Urss) e poi a Boris Eltsin impalato dopo la crisi del 1998. E sarebbe una nemesi atroce visto che fu proprio Eltsin al capolinea fisico e morale a piazzare (senza elezioni di sorta) un’allora sconosciuto Putin sul trono del Cremlino. Tuttavia, per quanto lo Zar imprechi quotidianamente contro il complotto planetario e gli speculatori, in stile Berlusconi 2011, la tempistica della crisi economica e di quella ucraina sono una mera una coincidenza. La Russia putiniana è un imbolsito dinosauro d’argilla che sperpera immense ricchezze in un’orgia di cleptocrazia inefficiente e autoritaria e che ha goduto finora di una stagione irripetibile. Ma con il calo della domanda per effetto dell’evanescente ripresa globale e l’aumento dell’offerta americana da fonti non convenzionali il mercato del petrolio è entrato in una fase di debolezza destinata a perdurare fino a quando i produttori con i costi di estrazione più onerosi non saranno costretti a chiudere i pozzi.

Gli unici a poter fare qualcosa sarebbero i sauditi che però in un’ottica di lungo periodo preferiscono spazzare via un po’ di concorrenti fastidiosi soprattutto tra i fracker americani. Per la Russia, stritolata in questo meccanismo, le prospettive sono drammatiche. Ragionando a spanne con i capitali in fuga al ritmo di 100 miliardi di dollari l’anno e 120 miliardi di debito in scadenza nel 2015 per evitare un tracollo l’economia russa deve generare un surplus di partite correnti con l’estero di oltre 100 miliardi di dollari. Invece, nella situazione attuale con il petrolio sotto i 60 dollari al barile, le partite correnti puntano verso il rosso. L’unica soluzione consiste nel comprimere la domanda di importazioni, come del resto succede in tutte le crisi valutarie.

In effetti questo processo è già stato innescato perché l’aumento dei tassi colpirà la propensione a investire, mentre l’inflazione, spinta dalla svalutazione, distruggerà il potere di acquisto dei salari e di conseguenza i consumi. Inoltre nel marasma, le banche maggiori, che hanno esposizioni all’estero, saranno sotto pressione, e pertanto l’accesso al credito anche a tassi proibitivi per molte imprese (specie quelle senza solidi legami all’oligarchia) sarà una chimera. Il processo potrà essere attenuato o rallentato con ulteriori acquisti di rubli utilizzando le riserve valutarie, che ufficialmente sono ancora cospicue (360 miliardi di dollari) e probabilmente attingendo dal fondo sovrano che ha circa 78 miliardi di dollari.

Ma nessuno nutre soverchie illusioni: la stessa Banca centrale ha annunciato che l’economia potrebbe contrarsi del 4,5 percento se il petrolio rimane intorno ai 60 dollari. Uno stress test del resto non è lontano visto che le aziende russe nel quarto trimestre devono fronteggiare 35 miliardi di dollari di debiti in scadenza. Nei prossimi giorni il contagio è destinato a propagarsi ad altri mercati emergenti dal Brasile alla Cina in cui già si prevedevano tempi duri per il rafforzamento del dollaro e la fine del quantitative easing (l’acquisto massiccio di titoli di Stato) da parte della Federal Reserve che assicurava abbondante liquidità e afflussi di capitale. Ma un po’ tutti i mercati globali sono in subbuglio con precipitose fughe verso i titoli rifugio, tipo Bund tedeschi e T-Bill americani che volteggiano sui massimi storici.

Per quanto le Borse dei paesi maggiori hanno evitato il panico, il Vix, il maggiore indice della volatilità derivata dalle opzioni (conosciuto sui tradingfloor come “indice della paura”) segue un trend crescente con frequenti singulti. In ogni caso è difficile ipotizzare che in questa situazione tesa siano in molti a voler correre rischi con acquisti di azioni, soprattutto in vista delle feste quando la liquidità sui mercati è minima e ogni intoppo rischia di provocare danni gravi. La vulnerabilità più vistosa deriva dal fatto che il sistema finanziario, drogato dalle banche centrali maggiori, mantiene una leva troppo alta, quindi soffre di esposizioni che rischiano di esplodere per contraccolpi che in circostanze normali sarebbero gestibili. Se non si vuole evocare la tempesta perfetta, è bene tener presente che l’aria siberiana stazionerà ben oltre il nuovo anno e i Paesi più fragili, Italia inclusa, rischiano il congelamento. La banca centrale russa guidata da Elvira Nabiullina ha portato il tasso di interesse russo al 17 per cento. Nel 1998 il suo collega del tempo lo innalzò fino al 100 per cento. Senza riuscire a evitare il default sovrano. Un ricordo utile, si spera, per chi oggi in Italia vagheggia il ritorno alla lira.

il Fatto Quotidiano 17 dicembre 2014

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