I conti della sanità pubblica italiana sono tornati (quasi) in equilibrio. Ma a prezzo di tagli alle prestazioni e di un forte aumento delle disparità tra cittadini residenti nelle diverse Regioni. In Lazio, Campania, Calabria e Sicilia, in particolare, negli ultimi cinque anni il numero dei medici e degli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale è stato ridotto del 15%. E “in modo casuale”, semplicemente non rimpiazzando il personale che andava in pensione. Inevitabili, dunque, le ripercussioni sui servizi. Non solo: se da un lato la spesa pubblica per la sanità, per la prima volta da 20 anni, è in calo – lo scorso anno è scesa a 112,6 miliardi, l’1,2% in meno rispetto al 2012 – , dall’altro quella privata non riesce a compensare. Anzi, scende. Fanno eccezione solo le aree più ricche del Paese, quelle dove ce ne sarebbe meno bisogno perché le prestazioni pubbliche sono già sufficienti. La spiegazione? Ormai la salute è un “bene di lusso”, cioè un insieme di servizi di cui, se il reddito è basso, si tende a fare a meno. A delineare questo scenario è il rapporto Oasi (Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano) 2014 sullo stato della sanità italiana, messo a punto dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) e dalla Scuola di direzione aziendale dell’università Bocconi.

Le oltre 630 pagine di rapporto evidenziano come lo storico disavanzo del Ssn si sia ridotto a “soli” 1-1,5 miliardi di euro. Un buco che si azzera, e si trasforma addirittura in un risultato positivo, se si tiene conto dell’aumento degli incassi fiscali ottenuti (forzatamente) dalle Regioni in deficit e sottoposte a un piano di rientro, che sono obbligate ad alzare l’aliquota Irpef al livello massimo consentito. In parallelo, tra 2012 e 2013 il peso della spesa sanitaria pubblica sul pil è diminuito dal 7,3 al 7,2% del prodotto interno lordo. Questo, sottolineano i ricercatori, nonostante “l’oggettivo peggioramento del quadro epidemiologico, l’aumento della deprivazione socio-economica e la crescita tecnologica”, tutti fattori che tendono a far lievitare le uscite. Come è stato raggiunto, allora, questo risultato? Semplice, aumentando i ticket dagli 1,6 miliardi complessivi del 2007 ai 3 del 2013 e tagliando le uscite. Cioè congelando le retribuzioni del personale (ferme da cinque anni), contenendo la spesa per i farmaci convenzionati e i dispositivi medici, riducendo le tariffe riconosciute ai privati accreditati. 

Peccato che questo si sia tradotto, “almeno in alcuni contesti e ambiti”, in una parallela riduzione “della capacità di soddisfare i bisogni“. Mentre “in altri casi alla riduzione ha corrisposto semplicemente il peggioramento delle condizioni di lavoro e di reddito” dei dipendenti del Ssn e il “progressivo aumento dell’esternalizzazione dei servizi assistenziali a cooperative sociali“. Altri interventi hanno puntato invece a “migliorare l’efficienza del sistema mantenendo costanti le risorse”. Ma non sempre le nozze con i fichi secchi riescono bene: ottenere servizi migliori senza spendere di più è possibile “solo se esistono sacche di inefficienza“, il che non sempre corrisponde al vero.

A incidere di più sui servizi ai cittadini è stato però il terzo tipo di strategia “taglia-costi”: quella che consiste nel ridurre direttamente “i volumi di prestazioni da erogare”. Per esempio riducendo i budget che il Ssn riconosce ai privati accreditati. “La riduzione dei volumi di prestazioni nell’area ambulatoriale, farmaceutica e ospedaliera rischia di tradursi in una riduzione del tasso di copertura pubblica dei bisogni sanitari in alcuni ambiti di cura e, in maniera più accentuata, in alcune parti del Paese”, sottolineano i ricercatori. Il pericolo è che il sistema, già incapace di offrire servizi adeguati per la maggior parte dei problemi odontoiatrici e per la non autosufficienza (la copertura pubblica si ferma rispettivamente al 5 e al 25% delle richieste nelle regioni più ricche) e debole nell’offerta di visite psichiatriche e trattamento delle dipendenze, non riesca più nemmeno a garantire, se non a fronte di un ulteriore aumento dei ticket, la copertura delle prestazioni ambulatoriali, indispensabili per la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento delle patologie croniche, da cui ormai è affetto il 30% della popolazione. Per non parlare dell’allungamento delle liste di attesa per i ricoveri programmati, in un contesto che ha visto i posti letto ospedalieri contrarsi di quasi un terzo. Emorragia non ancora finita, visto che secondo il Cergas in futuro servirà un’ulteriore riduzione del 10-15%.

In questo quadro, spiega Francesco Longo, docente della Sda Bocconi, ex direttore del Cergas e tra i curatori del rapporto, “le assicurazioni private e le mutue, che oggi intermediano solo 4 sui 27 miliardi di euro di spesa privata per la salute, spingono per ritagliarsi un ruolo maggiore. Ma la strada per arrivarci è una revisione dei Livelli essenziali di assistenza, in gergo Lea (cioè l’insieme dei servizi e delle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale eroga a tutti i cittadini gratuitamente o dietro pagamento di un ticket, ndr). Tutti lo chiedono ma il ministero della Salute e il governo per ora non si muovono perché, oltre che complicato dal punto di vista tecnico, dire in modo esplicito che cosa lo Stato non garantisce sarebbe politicamente impopolare. Eppure è ben noto che in alcuni campi, come l’odontoiatria, l’offerta pubblica è insufficiente e il cittadino deve pagare di tasca propria”. Insomma: il fatto che il sistema sanitario lasci scoperte diverse aree cliniche, nelle quali solo i benestanti riescono a garantirsi prestazioni private adeguate mentre gli altri devono fare ricorso ai servizi gratuiti del terzo settore, è un segreto di Pulcinella. Ma si preferisce non dirlo ad alta voce. E la revisione dei Lea, pur prevista dal Patto per la salute siglato la scorsa estate tra governo e Regioni, può aspettare. “Così, però, non è chiaro se si vuole promuovere un modello basato sui fondi integrativi professionali e le mutue o sulle compagnie di assicurazione private. Nel primo caso parliamo di polizze a prezzi accessibili per tutti, nel secondo è la società a decidere se e a che prezzo vendere la polizza al singolo individuo, sulla base della sua età e delle sue condizioni di salute”. Una linea di pensiero che si sta già diffondendo in altri Paesi europei: è notizia di questi giorni che Generali sta per lanciare in Germania un’assicurazione sanitaria scontata per chi “giura” di fare sport e mangiare sano e accetta di dimostrarlo facendosi monitorare da un’apposita app.

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