In pochi conoscevano Gianluigi Melega, uomo schivo e per qualche aspetto – come si dice – d’altri tempi, scomparso all’età di 79 anni. Se vai su Wikipedia sai tutto e niente: Milano, 12 gennaio 1935 – Venezia, 12 settembre 2014; giornalista, scrittore e politico; iniziò l’attività giornalistica a Il Giorno, lavorando in seguito a Panorama e a La Repubblica, della quale fu uno dei fondatori; diresse L’Europeo dall’agosto 1976 a febbraio 1977; scrisse libretti d’opera; eletto deputato del Partito Radicale nelle elezioni politiche del 1979 e del 1983.

Ma Gigi è stato sopra ogni altra cosa un grande giornalista. Soprattutto negli otto anni in cui ha fatto il capo della redazione romana di Panorama, e nei quattro anni in cui ha partecipato da protagonista alla fondazione e alla invenzione de La Repubblica, ha praticato al massimo livello un giornalismo che in Italia non era mai stato praticato – “i fatti separati dalle opinioni”, l’inchiesta meticolosa, la cronaca asciutta ma non sciatta – e che fu poi travolto proprio dallo scalfarismo. Fu questo a rilegittimare e rilanciare il filone giornalistico italiano con i fatti mischiati alle opinioni, in cui prevalevano (e prevalgono) l’editorialismo e le appartenenze politiche, con i giornali-partito e poi i giornali-fazione, e che in definitiva ha contribuito ad impedire, anche alla vigilia della rivoluzione di internet, la nascita di un vero mercato dell’informazione in Italia.

A me è capitato di lavorare a La Repubblica sin dai primordi, con Melega e Scalfari, e di ricostruire nel mio libro La casta dei giornali (Stampa Alternativa, 2007) il ruolo dell’uno e dell’altro nella costruzione di quel quotidiano e soprattutto nel tentare – in quel passaggio epocale della storia italiana (la fine dei meravigliosi e maledetti anni Settanta, e l’inizio dell’era cominciata con Craxi e proseguita con Berlusconi) – l’uno di dare una sterzata alla storia e alle antiche caratteristiche della informazione in Italia, e l’altro, nella sostanza, di introdurvi elementi di modernizzazione. Ha vinto Scalfari. Ma la modernizzazione organizzativa e formale, come sappiamo, non ha significato autentica innovazione in termini di valori e di contenuti, di libertà e di autonomia dell’informazione dal potere.

Perciò mi sembra oggi utile per tutti, non solo come doveroso omaggio a Melega, riproporre quella ricostruzione:

La cultura, la pratica professionale e le intenzioni di Scalfari, approdato dopo i vent’anni de L’Espresso al progetto di quello che in effetti avrebbe dovuto essere Le Monde italiano, erano proiettate inizialmente alla creazione di un quotidiano imperniato sugli editoriali e sullo schieramento. Un giornale di area socialista, che si opponesse a il Corriere della Sera, giornale moderato e di centro per definizione, e occupasse appunto l’area di opinione di sinistra liberal-democratica. Successe invece che il concorso di diversi fattori portò La Repubblica a diventare qualcosa di profondamente diverso da quello che immaginava il suo fondatore, la cui straordinaria abilità e il cui principale merito storico risiedono nella spregiudicatezza e nella intelligenza con le quali intercettò, interpretò e cavalcò tipologie professionali impreviste e persino opposte alla sua, improvvise svolte politico-sociali e inaspettate tendenze di mercato.

La vulgata storica del giornalismo italiano più recente sottovaluta, anzi ignora il ruolo che ebbe nel primo assetto anche grafico e organizzativo, ma soprattutto informativo de La Repubblica, e nella prima formazione collettiva di quel gruppo di giornalisti, la componente che potremmo schematicamente definire mondadoriana. La proprietà e la redazione de La Repubblica erano infatti composte al 50% dal gruppo Espresso e al 50% dalla Mondadori. E il settore trainante e le pagine più caratterizzanti del giornale furono nei primi anni gli “interni” – che unificavano politica e cronaca nazionale – affidati alla guida di Gigi Melega, proveniente non a caso dal news-magazine mondadoriano Panorama, sotto la cui testatina spiccava significativamente proprio il motto: «I fatti separati dalle opinioni».

Se si vanno a sfogliare le prime annate del quotidiano, si rileva con nettezza una chiara e sistematica distinzione, assolutamente inedita nel panorama giornalistico italiano di quegli anni, fra cronaca e commenti, e fra il linguaggio della cronaca (omogeneo e frutto di un attentissimo e minuzioso lavoro di editing) e la scrittura dei commenti (propria dello stile di ciascuna “grande firma”). Fu questa la peculiarità e verosimilmente il principale motivo di attrazione della nuova testata, insieme alla modernità dell’informazione culturale e alla cura del settore “esteri”.

Ma Melega, il custode quasi maniacale della separazione tra i fatti e le opinioni, dell’asciuttezza cronachistica, del linguaggio non commentante, ad un certo punto decise di andare via da La Repubblica. Certo, l’occasione fu l’offerta della direzione del settimanale Europeo, ma egli la colse al volo anche perché per lui e per quella concezione del lavoro giornalistico e del giornalismo gli spazi in via dei Mille si facevano sempre più angusti. Il ruolo e il peso degli “interni” di Melega, al quale peraltro non venne mai proposto di fare il vicedirettore, erano diventati nel giornale sempre più rilevanti e al contempo sempre più ingombranti per il fondatore e per le seconde linee provenienti da L’Espresso e da Paese Sera, cioè da due scuole differenziate sul piano ideologico e diffusionale (una liberale e di target medio-alto, l’altra comunista e di target popolare), ma ambedue estranee al giornalismo non schierato e non militante.

Paradossalmente ma comprensibilmente, proprio mentre la formula de La Repubblica si consolidava e agganciava il mercato – stratificando man mano target fino ad allora rigidamente separati, aggiungendo all’informazione colta la cronaca, gli spettacoli e lo sport, e spostando la propria attenzione dalla risicata area socialista a quella ben più corposa dei quadri, della base e dell’elettorato comunista –, la componente Espresso divorava la componente Panorama e lo scalfarismo si allargava in tutta la sua forza, eliminando ogni ostacolo alla propria espansione e impregnando di sé tutta la fattura del giornale. Non a caso, andato via Melega, gli “interni” furono scissi più tradizionalmente in «cronaca» (affidata ad un ex di Panorama) e in «politica» (affidata ad un ex comunista).

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