“Papi, sentimi”. È la prima volta che Sofia, quasi due anni e mezzo, tenta di richiamare la mia attenzione mentre – a casa – sono intento a rispondere alla email di un cliente dal mio smartphone. Di lì a qualche minuto il mio senso di colpa aumenta quando leggo la notizia di Katie, figlia di un dipendente di Google, che ha scritto all’azienda di Mountain View per chiedere almeno un giorno di vacanza per il suo papà (che in quei giorni avrebbe anche festeggiato il compleanno).

Il capo non è rimasto insensibile a questa accorata richiesta e ha accordato al collaboratore ben una settimana di vacanza. Una storia a lieto fine quindi? Forse.

Ma la domanda nasce spontanea: nel 2014 è sufficiente non recarsi in ufficio per non lavorare? Certamente no.

Notebook, tablet e smartphone ci consentono di portare il lavoro ovunque (ed è un bene) ma – di fatto – ci costringono a lavorare sempre e a non staccare mai (ed è un male).

La praticità di email, chat e videoconferenze ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e lavorare, dandoci la (spesso illusoria) sensazione di essere più produttivi ed efficienti. Così, abbagliati dai vantaggi che le tecnologie portano (ampliare le nostre possibilità di comunicazione, raggiungere nuovi clienti, rimanere in contatto con amici e colleghi), non abbiamo prestato la giusta attenzione a ciò che questo comporta per le nostre vite. E per quelle di chi ci sta accanto.

Non esistono sabati e domeniche o giorni festivi. Anche perché il luogo comune vuole, ormai, che la nostra bravura dipenda soprattutto da quanto veloci siamo nel rispondere a email e messaggi, non importa quale sia il giorno e l’ora.

Si tratta di un fenomeno più diffuso di quanto si pensi. Secondo una recente indagine, oltre il 60% dei lavoratori italiani ha dichiarato di aver ricevuto telefonate o mail fuori dall’orario di lavoro o durante le vacanze. Quasi il 40% ha affermato che il proprio datore di lavoro si aspetta una disponibilità totale (24 ore su 24, 7 giorni su 7).

Ovvia la conseguenza: i confini tra lavoro e vita privata sono sempre più sottili, se non inesistenti.

Altrove, ci si è già resi conto che questa situazione può essere pericolosa: in termini di stress e diminuzione della qualità della vita… oltre che di calo della produttività. In Brasile, ad esempio, è in vigore già da qualche tempo una legge in base alla quale le email fuori dall’orario di lavoro si pagano come straordinario. Ma, ovviamente, una norma di questo tipo si presta ad essere facilmente aggirata; cosa succede, ad esempio, se si usano Sms, Whatsapp o la chat di Facebook?

Fatto sta che anche altrove si sta provando a fronteggiare il fenomeno: in Francia, un recente accordo sindacale sancisce l’obbligo di non contattare i dipendenti fuori dall’orario di lavoro. In Germania, invece, le grandi aziende hanno deciso di affrontare il problema con i metodi più disparati: dalla computazione delle email ai fini dello straordinario fino alla cancellazione dei messaggi arrivai alla posta aziendale fuori dall’orario di lavoro.

È quindi chiaro come, nell’era delle “notifiche push” e delle “email che ti raggiungono ovunque”, più che le competenze digitali (il sapere usare le tecnologie) la vera questione che ci impegnerà nei prossimi anni sarà quella di definire un confine sostenibile tra lavoro e vita privata.

Se non ce la faremo, non stupiamoci se sempre più persone sceglieranno soluzioni drastiche. Come quell’amico, poco più che quarantenne, che qualche giorno fa mi ha candidamente confessato che da un anno e mezzo non ha più un cellulare né un tablet. Mi ha detto di essersi riappropriato del gusto di fare una passeggiata guardando il paesaggio e di avere più tempo per giocare con le figlie.  

Ecco, loro, probabilmente, non scriveranno mai al suo capo perché dia una vacanza al loro papà.

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