A Lecce discutono di cimiteri per i “bimbi mai nati”, e in realtà parlano di feti o ancor prima di embrioni, e Maria Luisa Mastrogiovanni, direttrice del Tacco d’Italia, ha scritto una cosa che ha fatto infuriare gli antiabortisti. Da quel che leggo le sarebbero arrivate minacce e insulti d’ogni tipo e alla violenza simbolica della quale si fa portatore chiunque parli di “bambini” ai quali dare un nome quando c’è da seppellirne i feti si aggiunge una violenza verbale che rimette a posto quella donna che osa dire con chiarezza che di tutto ciò ne abbiamo abbastanza.

D’altra parte leggo della regione Lazio che, dopo la brutta parentesi della proposta Tarzia sull’introduzione di antiabortisti presso i consultori, ora si accingerebbe a stabilire che i medici che stanno nei consultori non potranno obiettare. Gli unici obiettori di coscienza previsti dalla legge 194 sono infatti quelli che concretamente avrebbero la funzione di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. Quello della regione Lazio sarebbe perciò un atto dovuto, per quanto, di questi tempi, per nulla scontato.

Ma ciò su cui vorrei riflettere, in poche battute, è la violenza del linguaggio di certi contesti antiabortisti. Vi basta cercare su google la parola “aborto” per trovare esempi di ritualità macabre e scenari horror. Brandelli di feti squartati, donne definite “assassine”, immagini surreali in cui vedi un bambino a occhi aperti dentro la pancia di una donna, così a seguire le uniche foto accettabili sono quelle in cui c’è un lui che tutela quel grembo, quasi a voler dire che la donna, da sola, proprio non ce la farebbe. Quello che viene fuori è la costante esigenza di fare apparire le donne come irresponsabili, minorate, incapaci di intendere e volere e dunque da sottoporre a tutela di un uomo che meglio di noi saprà tutelare quel feto.

Preciso che quanto scrivo non ha nulla a che vedere con le campagne che esibiscono richiesta materna di monopolio genitoriale. Anzi. Sarebbe ottimo prevedere forme di genitorialità condivisa in ogni occasione possibile. Il punto è che la genitorialità passa innanzitutto dalla scelta responsabile di chi vuole fare un figlio e i corpi delle donne, che lo vogliate o no, non sono dei contenitori. Non possono essere sottoposti ad alcun obbligo o divieto istituzionale. 

Il corpo delle donne, fragile, da tutelare, consegnato allo Stato, come corpo sociale, oggetto di attenzione e controllo sociale, è roba da Stato fascista. I corpi non possono appartenere allo Stato, neppure in nome di un bene superiore da tutelare. Consegnare i corpi per questioni di “sicurezza”, per esempio, è già una sottrazione di autonomia a cura di uno Stato paternalista che esige di scegliere al tuo posto su come e quando dovrai risolvere il tuo problema di violenza. Pretendere che lo Stato abbia l’ultima parola sulla gravidanza di una donna è allo stesso modo autoritario.

Del fatto che quei corpi non possono essere autoritariamente controllati la società è stata, comunque, sempre più consapevole. Più le donne assumevano controllo della propria scelta di maternità e più la società si adoperava per convincerci che fare figli è una gran cosa, la piena realizzazione della nostra vita, e che abortire invece è un male. Tutta la discussione pubblica è sempre articolata in modo tale da suscitare in noi sensi di colpa. La colpa delle donne, di quelle che non vogliono essere madri, di quelle che lo sono troppo poco, e di quelle, ancora, che non accettano imposizioni di alcun tipo. 

Qui non si parla del ruolo materno, tenendo conto di quanto sia discutibile la storia dell’istinto e del destino naturale di tutte le donne, ma del fatto che alle donne viene, per certi versi, rubato il diritto di esercitare libertà di scelta. Allora chiedo coerenza a tutte quelle persone che, per esempio, hanno un’opinione laica sulla gestione dei corpi delle donne quando si tratta di ragionare sul mestiere che vogliono fare. Se faccio l’attrice porno, la sex worker, la marchettara in qualunque forma, è una mia scelta e nessuno dovrebbe imporre norme che mi vietino una di queste cose. Allo stesso modo, dato che la maternità deve essere una scelta, non si può imporre ad una donna di fare un figlio se non lo vuole. Perché è pur sempre una storia che passa per i nostri corpi. Perché bisogna smetterla di impedirci di accedere alla prevenzione

Se gli antiabortisti non si opponessero all’educazione sessuale nelle scuole, alla contraccezione d’emergenza e se non si continuasse a voler fare “abortire con dolore” ma prima ancora “fare sesso con dolore” e solo per motivi riproduttivi, se tutto, insomma, fosse un po’ più laico, forse, non ci sarebbero neppure aborti.

Perché un aborto è una cosa intima, è una scelta personale, è una vicenda talmente complessa e soggettiva, talvolta dolorosa, che non può esaurirsi neppure nelle poche parole che scrivo qui io, e dunque si, questa cosa dei cimiteri con i nomi e cognomi dei feti è un anatema lanciato contro quelle che abortiscono, è un altro, tra i tanti, modi per definirci come difettose, è una delle tante ritualità macabre celebrate da chi non ha alcuno scrupolo a manifestare, con bambole rivestite di sangue, e a parlare, senza alcun pudore, dell’uso che si dovrebbe fare dei corpi delle donne.

Il corpo delle donne è di ciascuna tra quelle donne. Questo non è negoziabile. La legge già dà la possibilità di seppellire un feto se qualcuna volesse farlo, e dunque il fatto di contrassegnare intere zone ai “bimbi non nati” ha un valore simbolico di tutt’altro genere. Lo dico alle donne che abortiscono non per scelta e che vogliono seppellire quel feto: non cadete nel gioco che fanno gli antiabortisti. Vogliono metterci le une contro le altre, fanno uso del vostro dolore per rinfacciarlo all’altra, ma quella che abortisce non ha mai imposto nulla a chi non vuole farlo. Non fate, ve ne prego, in modo che avvenga il contrario.

 

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