C’è un piccolo pianoforte di legno scuro. Sopra, ordinatamente allineate, foto dentro cornici d’argento: c’è Giulia, cinque anni, capelli lunghi a caschetto. C’è Gabriele, venti mesi, il ciuccio in bocca, un cappellino a righe in testa. Poi i bimbi con i genitori. E sopra sul muro la gigantografia di loro due: Maria Cristina e Carlo, 38 anni lei, 32 lui. Sposati da sei. Cristina che lavora in un’agenzia di assicurazione, Carlo che è impiegato in una società di software, va in moto, tifa Juventus, gioca a basket con gli amici dell’oratorio e ha il culto del corpo. Sono abbracciati. Sullo sfondo il mare. Ricordo di una vacanza felice. Ricordo ora distante come mai. Perché lì sotto, sul pavimento, tra il pianoforte e il divano, c’è il corpo di Maria Cristina Omes (leggi la cronaca). Volto a terra e tanto sangue. C’è silenzio nella villetta di via Ungaretti 20 a Motta Visconti, ricco comune a cavallo tra Milano e Pavia. Due piani e intonaco rosa. Il portico, il giardino curato, i giochi riordinati. È sabato sera. L’Italia resta sveglia per vedere l’esordio della nazionale di Prandelli al mundial brasiliano. C’è da battere l’Inghilterra. Manca un’ora al fischio d’inizio. In casa adesso si sente l’acqua scorrere. Il bagno è oltre un tinello con un tavolo in legno e la palla del cartone animato Peppa Pig accanto alla sedia. Lissi è sotto la doccia. In testa un solo pensiero: la libertà e la fuga da quella famiglia che per lui è ormai una disperazione, una gabbia, un intralcio alla sua nuova vita sognata con una donna conosciuta sul lavoro, alla Wolters Kluver di Assago. Passione non corrisposta. Lui ci prova, lei rifiuta. Lo stress aumenta, la paranoia anche. Carlo si mette in testa che l’unico ostacolo a quella relazione è la sua famiglia. Ci pensa per giorni. Poi uccide moglie e figli. In modo premeditato, simulando una rapina, aprendo la cassaforte e contando sull’alibi della partita. Ma alla fine crolla, confessa e chiede di essere condannato al massimo della pena.

I vicini pensavano: “Soliti schiamazzi” – Quasi le 11 di sera nella villetta. Lissi ha appena ucciso la moglie. Sette coltellate a gola e corpo. Dopo aver fatto l’amore. Dopo averle sussurato parole dolci. Carlo si è alzato. In cucina ha preso un coltello. Maria Cristina ha urlato “perché, aiuto”. I vicini hanno pensato ai “soliti schiamazzi”. Al piano di sopra, intanto, i bimbi dormono. Gabriele nel lettone matrimoniale. Giulia nella sua cameretta. Carlo indossa solo un paio di mutande. Si è lavato del sangue. Uccide ancora: prima la figlia e poi Gabriele. Un colpo a testa. Alla gola. Tanto netto che i bambini non si svegliano. Muoiono nel sonno. Che succede adesso? Carlo si veste: jeans, maglietta blu e giubbotto. Prende l’auto e in una manciata di minuti percorre i pochi chilometri che lo separano dalla casa di un amico dove vedrà la partita dell’Italia, senza far intravedere niente, senza tradirsi e anzi partecipando al match da tifoso, esultando per i gol di Marchisio e Balotelli.

L’appuntamento al bar Zimè con l’amico – Inizialmente aveva l’appuntamento al bar Zimè di Motta, ma la cosa salta. Alle 21,30, ben prima del massacro, invia un sms a un amico: “Il Maffi mi ha paccato per andare allo Zimè a vedere la partita, Valè mi ha detto che vengono da te, posso fare lo sfacciato e aggregarmi a voi?”. L’Italia vince e poco dopo le 2, Carlo rientra in casa. Inizia la recita del killer. L’allarme scatta subito. Alle 4,30 arriva la scientifica, alle 5 il nucleo investigativo dei carabinieri di Milano. Si pensa a un omicidio-sucidio. Ipotesi scartata: manca l’arma del delitto. Esclusa anche la rapina. La casa è sottosopra, ma sembra una messa in scena. Carlo Lissi viene portato nella caserma di Motta verso le sei. Racconta come ha trovato i corpi. Poi si chiude nel silenzio. Non protesta. Gli viene chiesto di spogliarsi. Indossa la tuta bianca dei Ris. A mezzogiorno chiede di mangiare: pizza ai funghi. Poi si assopisce. Alle 18 scatta il fermo. I carabinieri ritengono la sua prima versione contraddittoria. Dice di essersi sporcato di sangue quando ha visto la moglie e poi di essere corso al primo piano accendendo le luci. Gli interruttori però sono puliti. L’arma ancora non si trova. I carabinieri lavorano veloci. Sentono i vicini e gli amici. Ma sono i colleghi di lavoro di Carlo a metterli sulla pista giusta.

“Per quella ragazza aveva perso la testa” – Parlano di quella donna per la quale Lissi aveva perso la testa. Raggiunta al telefono, la ragazza conferma tutto. È la carta vincente che gli investigatori calano davanti a Carlo Lissi. È l’attimo decisivo. Il momento di lucidità arriva a mezzanotte di domenica. Carlo tiene il volto nascosto nelle mani, il corpo è rilassato. !Sono stato io a uccidere mia moglie e i miei due figli, voglio il massimo della pena”. La storia del triplice omicidio di Motta Visconti si chiude così. Con una confessione piena. Carlo Lissi in venti minuti mette a verbale tutto e fa ritrovare l’arma gettata in un tombino. “Sono tornato in salotto e mia moglie era seduta sul divano. Da dietro l’ho colpita alla gola. Inizialmente ha detto no e poi ha solo continuato a gridarmi: perché. Dopo che si è accasciata a terra sono andato in camera di mia figlia. Era a pancia in su. Ricordo solo che le ho dato una coltellata alla gola. Dopo che ho estratto la lama lei si è girata di lato e così è rimasta. Non ha detto nulla. Poi sono entrato in camera da letto dove c’era mio figlio Gabriele. Anche lui dormiva e anche a lui ho dato un’unica coltellata alla gola”. Il pm Giovanni Benelli chiede: “Non era meglio divorziare?”. Glaciale la risposta di Carlo: “Il divorzio non avrebbe risolto, perché i figli sarebbero comunque rimasti”.

Da Il Fatto Quotidiano del 17 giugno 2014

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