L’ipotesi di reato su cui la Procura di Bologna ha riaperto l’inchiesta archiviata sui comportamenti omissivi di funzionari di Stato nella revoca della scorta al giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle nuove Brigate rosse il 19 marzo 2002, è omicidio per omissione. Si tratta di un’ipotesi di reato più grave dell’omissione semplice – che si sarebbe prescritta dopo 7 anni e mezzo (nel 2009) – e dunque ancora perseguibile. L’inchiesta, al momento contro ignoti, è derivata anche da documenti sequestrati nell’inchiesta sul conto dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola.

A chiedere la riapertura delle indagini era stato il pm Antonello Gustapane, con l’ipotesi che chi sapeva delle minacce a Biagi non fece quello che era in suo potere e dovere per porlo al riparo. A motivare la riapertura delle indagini, alcuni documenti sequestrati dalla Procura di Roma in tutt’altra indagine, recentemente trasmessi a Bologna. Le carte sarebbero state in possesso di Luciano Zocchi, ex segretario di  Scajola, l’ex ministro dell’Interno arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di aver favorito la latitanza del collega di partito Amedeo Matacena.

Tra le carte in mano alla Procura, ci sarebbe una lettera di un politico vicino al giuslavorista che fu spedita a Claudio Scajola, allora ministro dell’Interno, in cui si spiegava la serietà del pericolo per Biagi, appena pochi giorni prima dell’assassinio. Sulla lettera ci sarebbe il ‘visto’ dell’ex ministro Scajola, che sostenne invece di non essere al corrente dei gravi rischi per il professore.

“Ho sempre detto la verità e non da oggi”, spiega Zocchi in un’intervista all’Ansa. “Ho conservato i documenti a mia tutela e li ho messi a disposizione appena mi sono stati chiesti. Auspico che possano concorrere al pieno accertamento della verità”. L’ex 007 e segretario di Scajola sottolinea che le carte che gli sono state trovate sono sue e non di Scajola. Le ho tenute per dimostrare “la perfetta buona fede del mio operato”. Zocchi tira in ballo l’allora segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone: “Gli parlai come ad un padre spirituale in modo molto sommario non andai nei dettagli e lui mi disse di agire secondo coscienza”.

Il ministero dell’interno, che a quel tempo era appunto diretto da Scajola, aveva ritirato la scorta al professore nonostante le sue continue richieste. La scorta al giuslavorista, coautore tra l’altro del contestato Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, fu tolta definitivamente in seguito a una circolare del ministro Scajola del 15 settembre 2001, che dava seguito a una riorganizzazione e riduzione generale di questo tipo di tutela in tutta Italia (qui una ricostruzione della vicenda). Biagi, che riceveva continue minacce,anche telefoniche, per il suo contributo alla riforma della legislazione sul lavoro, chiese ripetutamente che la protezione fosse mantenuta, e per lui si mossero diverse personalità, compreso l’allora ministro del Welfare Roberto Maroni. Senza risultati, però: la scorta restò revocata e il docente venne assassinato il 19 marzo 2003, mentre rincasava in bicicletta, sotto la sua abitazione di via Valdonica. Maroni, oggi a Milano per un incontro in prefettura, ha preferito non rispondere alla domanda di ilfattoquotidiano.it sulla vicenda: “Non ho commenti da fare”. Poi  ha aggiunto: “Sono cose che già si sapevano, non so neanche se esista il reato di omicidio per omissione”.

Il 16 aprile, Scajola rispose in Senato al collega ministro Maroni, che sosteneva di aver chiesto al Viminale il ripristino della tutela: “Un mio interessamento non era ipotizzabile perché non fu mai richiesto da alcuno e perché non fui mai informato di questa vicenda”. 

A far discutere nei mesi successivi l’omicidio, l’articolo del Corriere della Sera in cui si riportava un commento dello stesso Scajola: “A Bologna hanno colpito Biagi che era senza protezione ma se lì ci fosse stata la scorta i morti sarebbero stati tre. E poi vi chiedo: nella trattativa di queste settimane sull’articolo 18 quante persone dovremmo proteggere? Praticamente tutte”. Ma sopratutto il commento che più scosse l’opinione pubblica: “Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza”. Sull’onda delle polemiche, ministro dell’Interno del governo Berlusconi fu costretto a dimettersi subito dopo. 

Il pm Gustapane è lo stesso magistrato che nel 2003 aveva chiesto l’archiviazione dall’accusa di cooperazione colposa in omicidio per diversi alti funzionari coinvolti nelle decisioni relative alle scorte: l’allora direttore dell’Ucigos, Carlo De Stefano, il suo vice Stefano Berrettoni, il questore Romano Argenio e il prefetto Sergio Iovino. Le nuove Br – fu la conclusione del gip che archiviò l’inchiesta, Gabriella Castore – scelsero di colpire il professor Biagi anche perché gli fu tolta la protezione, per una serie di errori sia a livello centrale che periferico, che però non avevano rilievo penale.

Per questa nuova indagine la Procura avrebbe sentito lo stesso Zocchi e la moglie dell’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, all’epoca sottosegretario di Maroni e destinatario, nell’estate 2001, di una e-mail in cui il giuslavorista già denunciava minacce. Nei giorni scorsi è stato sentito un altro testimone, nel massimo riserbo.

“Prendiamo atto” ha commentato con l’Adnkronos il legale della famiglia Biagi, Guido Magnisi. Quanto all’ipotesi che la famiglia del giuslavorista possa costituirsi parte civile in un eventuale nuovo processo, l’avvocato risponde che per ora su questo è prematuro esprimersi, poiché aggiunge “non abbiamo elementi” di merito. Al momento comunque, conferma Magnisi, la vedova Biagi, Marina Orlandi, “non è stata chiamata” dagli inquirenti ai quali, comunque, la donna ha espresso tramite il suo legale la propria disponibilità ad essere sentita, qualora i pm lo ritenessero utile.

“Non uccidiamo Marco Biagi due volte. La famiglia ha già sofferto abbastanza”, dice all’Adn Kronos padre Augusto Tollon, confessore di Marco Biagi e amico di famiglia. Che però sottolinea: “La famiglia Biagi ha sempre insistito sulla necessità di protezione per Marco. La moglie lo ha detto tante volte, eppure la politica non ha fatto nulla. Anzi, non dimentichiamo che si è risposto alle richieste di aiuto con grande volgarità”.

Intanto è da registrare l’addio polemico di Nico D’Ascola, il legale di Scajola che oggi ha annunciato l’abbandono dall’incarico, da mettere in relazione alla polemica, “falsa e strumentale”, afferma in una  nota, sul presunto conflitto di interessi in cui si troverebbe come senatore, essendo relatore del ddl sui reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., autoriciclaggio, voto di scambio e false comunicazioni sociali.

Nel frattempo è durato circa 2 ore e mezza il colloquio nel carcere Regina Coeli di Roma tra l’ex ministro e il suo avvocato Giorgio Perroni. “Sta bene, abbiamo parlato principalmente del processo e poi del più e del meno – ha detto all’Adnkronos Perroni – Sull’archivio e sulla lettera di cui parlano tanto i giornali io non so niente. Noi conosciamo le vicende che ci sono state contestate a Roma e per le quali si è già svolto l’interrogatorio. Quella lettera non è stata sequestrata a noi e quindi non siamo in grado di fare nessun commento”. Sarà invece interrogata venerdì prossimo Chiara Rizzo, la moglie di Matacena, che da ieri si trova nel carcere di Reggio Calabria.

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