Se c’è un po’ d’Italia nel dibattito europeo, è merito, anzi demerito, di Silvio Berlusconi: con la sua campagna anti-tedesca e anti-Schulz, diventa l’ ‘uomo nero’ del primo confronto in diretta tv fra i candidati alla presidenza della Commissione europea. Tutti lo evocano e lo criticano, tranne Schulz che può permettersi d’ignorarlo.

E Juncker tradisce l’imbarazzo dei popolari per quell’alleato scomodo e invadente –“le sue dichiarazioni mi hanno fatto stare male”, dice-, che però non cacciano perché, senza Forza Italia, non potrebbero più confermarsi la prima forza del Parlamento europeo. Verhofdtadt stana le contraddizioni del Ppe, che si tiene in seno gli “estremismi” di FI e del partito del premier ungherese Viktor Orban.

Protagonisti del dibattito, Martin Schulz, socialista, tedesco; Jean-Claude Juncker, popolare, lussemburghese; Guy Verhofstadt, liberale, belga; e Ska Keller, verde, tedesca. L’assenza di Alexis Tsipras, greco, sinistra radicale ed ‘euro-critica’, priva il confronto dell’unica vera voce alternativa. La Keller, tutta di rosso vestita, è dinamica, giovane, simpatica, ma non fa il peso di fronte agli altri tre vecchi marpioni. Le cui posizioni, spesso, coincidono.

La formula vuole essere quella dei dibattiti presidenziali negli Stati Uniti. Ma i giornalisti d’EuroNews che gestiscono il confronto impongono un ritmo troppo frenetico -30 secondi d’intervento a testa-, che non riescono a fare rispettare, né rispettano la successione degli interventi.

I 90’ paiono un po’ confusi e molto lunghi. Anche se la platea studentesca di Maastricht, città simbolo dell’integrazione europea, alleggerisce il clima. E i tweet fioccano, a conferma d’una audience tendenzialmente giovane.

Che siamo lontani anni luce dalla retorica positiva dei dibattiti americani, lo dimostra poi la battuta d’esordio di Junker: “Non voglio un’Europa che sogna” –sarà pure una dimostrazione d’onestà, ma è anche un tarparsi le ali a priori-.

Verhofstadt, un federalista, è quello che ne esce meglio, da un punto di vista europeo: vuole una Commissione che diriga l’Europa e non la segua, che non dia retta solo a Berlino e a Parigi. Juncker e Schulz fanno molta fatica a fare dimenticare le loro responsabilità –il primo, in quanto premier per 18 anni e presidente dell’Eurogruppo per sette; il secondo in quanto eurodeputato da 20 anni e presidente dell’Assemblea di Strasburgo- nella gestione dell’Unione e nelle scelte anti-crisi dell’ultimo lustro.

Quando entrambi s’arrendono “per realismo” al no agli eurobond, la maschera viene giù –mentre Verhofstadt ammette che non si uscirà dalla crisi senza-. E il cerone si scioglie a Juncker quando mette un freno alla solidarietà dell’Europa nei confronti dei migranti “(Non possiamo farci carico delle miserie del Mondo”), anche se tutti condividono la necessità di una politica europea “dell’immigrazione legale”.

Su crescita e occupazione, sull’agenda digitale, su Usa ed Ucraina, sul contrasto al populismo, sull’Unione più dei cittadini che delle banche, difficile distinguere i ritornelli dei candidati. Le elezioni europee? “Un referendum sull’Unione”, che si gioca soprattutto sul tasso di partecipazione, per un recupero europeo della sovranità perduta a livello nazionale.

Stop qui: si replica a Firenze il 9 e poi di nuovo il 15: Tsipras dovrebbe esserci e, magari, il dibattito sarà più vero, più polemiche e meno melassa.

 

 

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