A costo di ripetermi, tornerei a un tema a me caro, che ha la forza di un’urgenza. Mi scuso perciò in anticipo se alcune parole vi sembreranno già dette, ma mi tocca e vi tocca. Che poi, in un Paese dove da anni si parla solo dei problemi giudiziari di una persona, mi si perdonerà facilmente una punta di monotonia …

Allora, è ai concetti di fragilità e precarietà che vorrei tornare. O viceversa (precarietà e fragilità), chissà. Sono due timbri, due segnali dei tempi che ammantano il nostro quotidiano e ci obbligano a trovare risposte, a movimentare risorse, a ripensare organizzazioni. Ed è soprattutto nell’organizzazione, a mio avviso, che va ricercato l’antidoto alle incertezze e alle preoccupazioni che deprimono la società. Ovviamente ho in mente un ben determinato tipo di organizzazione, e qui confido nella vostra immaginazione. Avete indovinato?

Ovunque si attuano tagli, ovunque si comprimono bilanci, si ridimensionano o si chiudono servizi, e non m’interessa ora far la tara ai perché. Fatto sta che, parlando del sistema di cura, ovunque ci si giri, il panorama si presenta desolante e non è che all’orizzonte si preannuncino schiarite. Anzi. Oltre allo stillicidio di opportunità e diritti per i cittadini, spesso deboli, una delle conseguenze più evidenti del fenomeno è la contrazione dei posti di lavoro (o l’inasprimento delle condizioni di lavoro) di tanti operatori, evento che spesso passa sotto traccia, senza che nessuno si scandalizzi, a conferma dell’invisibilità del lavoro sociale.

Nel far fronte a questa specifica “crisi nella Crisi”, che mette in ulteriore discussione il nostro lavoro, ormai precario per definizione, quel che conta è il metodo: coinvolgere gli operatori e le loro famiglie in un sistema di scelte pensate e attuate con protagonismo, che ammortizzi le ricadute delle scelte stesse e consenta una sostenibilità del quotidiano non improvvisata, capace d’inserire difficoltà e sacrifici in un contesto che non sia solamente emotivo, e perciò spesso angosciante, ma articolato e consapevole, più forte perché collettivo. Insomma, occorre richiamare l’idea di un patto, quel patto che unisce un socio alla propria cooperativa e quindi agli altri soci, trasmettendo la sensazione di una comunanza d’intenti e, per certi versi, di destino (o di destinazione). In sostanza, va rispolverato e tirato a lucido il vecchio concetto di mutualità.

Il tutto si concretizza in un rapporto d’imprenditorialità diretta e condivisa, però sancita da un contratto di lavoro dipendente. Ed ecco una prima contraddizione: un imprenditore del proprio lavoro, disciplinato da un contratto di lavoro dipendente. Da qui, per esempio, nascono molte delle difficoltà di approccio al nostro mondo da parte dei sindacati. Ma non è solo questo. C’è un’altra contraddizione, ben peggiore: incontriamo troppo spesso situazioni nelle quali essere cooperativa significa indossare una maschera, un vestito buono per camuffare gestioni aziendali sfacciate (per stare blandi) a conduzione verticistica, che fa dello sfruttamento del lavoro la propria cifra. Quanto dico mi appare così vero che non a caso un’immagine assai diffusa del lavoro in cooperativa non richiama l’idea di luoghi di collaborazione e d’imprenditorialità condivisa, bensì di possibilità di lavoro sottopagato e senza garanzie, oppure d’investimento senza responsabilità personale. Sì, ce ne sono di contraddizioni e sfumature. Orientarsi non è facile.

Se è vero che vanno stigmatizzate le situazioni negative, non riesco a dimenticare però il ruolo significativo giocato dal movimento cooperativo nella costruzione di risposte ai problemi sociali comuni e alla costruzione di un sistema di vita più sostenibile per i ceti meno abbienti: dalle cooperative edilizie a proprietà indivisa nel dopoguerra, alle cooperative di consumo, dalle cooperative di lavoro a quelle sociali, è lungo l’elenco delle forme di risposta a bisogni sociali (anche gravi) e di promozione in senso lato del sistema di cura nel nostro Paese.

Occorrerebbe molto più spazio di quello che ho qui a disposizione per approfondire questi aspetti della questione, ma non ce n’è. Resta la sensazione che spesso queste idee e istanze coraggiose abbiano per lo più trovato attuazione concreta solo in esperienze circoscritte che solo di rado hanno saputo o potuto scalfire il sistema sociale ed economico complessivo. Lungi dallo scoraggiarci, questa considerazione deve invece spingerci a rilanciare l’idea e trasformarsi in appello a perseguire una genuina e autentica cooperazione. Lo dicevo per sottolineare che un’organizzazione davvero cooperativa enfatizza la positività del lavoro sociale favorendo la crescita della responsabilità e l’emersione di creatività. E lo ripeto adesso per insistere: anche essere precari assieme fa la differenza.

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