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Il caso Ablyazov e lo Stato burlesque

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Un ministro degli Interni “inconsapevole” che fa la figura del fesso col botto mentre al Viminale, nella stanza accanto, i suoi funzionari prendono ordini dai kazaki, addirittura esilarante quando in Parlamento si lancia in una strampalata autodifesa intessuta di “apro le virgolette nelle virgolette” da teatro dell’assurdo.

Un ministro degli Esteri tenuta rigorosamente all’oscuro di tutto (perfino delle notizie Ansa), insolentita dall’ambasciatore kazako che convoca invano (“sono in ferie”). Ma che improvvisamente ritrova la parola onde farci sapere che Alma Shalabayeva, consegnata dalle autorità italiane con la figlia di sei anni direttamente nelle grinfie del peggior nemico “sta bene e ringrazia l’Italia” (nessuna riconoscenza, invece, da parte del cognato per il cazzotto preso in faccia durante la perquisizione di Casal Palocco).

Un presidente del Consiglio aggrappato tremebondo alla giacchetta di Napolitano, costretto a esibirsi nello sperticato elogio del fesso col botto per salvare la poltrona.

Un presidente della Repubblica tonitruante e che si crede un monarca assoluto, perfino innominabile secondo il presidente del Senato nelle vesti di gran ciambellano di corte.

Un Partito democratico (“Pd, partito defunto”, twittano i militanti in rivolta) i cui maggiorenti definiscono il ministro di polizia o un inetto o un bugiardo e subito dopo gli votano la fiducia.

Un vertice della Procura di Roma con due parti in commedia: prima vieta il rimpatrio delle due donne, poi lo concede pressato sulla base di un fax, quindi lamenta, accidenti, la beffa subita. Il tutto coronato da un’allegra brigata di prefetti, sottoprefetti e dignitari senza dignità, “a disposizione” degli arroganti emissari di Astana, usati e buttati via come stracci e che in sovrappiù devono masticare la versione ufficiale e menzognera che segna la fine delle loro carriere.

Negli anni del Berlusconi trionfante, l’Economist coniò l’espressione Burlesqoni per descrivere l’anomalia di un paese che ancora godeva di una certa credibilità internazionale, ma governato purtroppo da un miliardario da avanspettacolo burlesque. Una decina d’anni dopo il burlesque dilaga e coinvolge governanti, leader di partito, alti burocrati, magistrati, vertici delle istituzioni in un eterno varietà. E non c’è più anomalia poiché quasi tutto è anomalo, almeno secondo i canoni delle democrazie decenti.

Ammettiamolo, per troppo tempo l’uomo di Arcore è stato il comodo alibi dietro il quale la cosiddetta classe dirigente nascondeva le proprie magagne. Lui era la pietra dello scandalo, anzi lo Scandalo eliminato il quale, si disse, il Paese avrebbe riacquistato rispetto per se stesso e nuovo slancio. Non è andata così. Oggi, con gli ultimi colpi di coda, il Caimano tenta di sfuggire alla giustizia che lo bracca da Milano a Napoli, passando per Roma dove la Cassazione potrebbe tra pochi giorni mettere la parola fine al suo ventennio politico. Eppure, vecchio, stanco, malandato è ancora lui che fa ballare gli altri piegando due ministeri e un’intera catena di comando ai desideri del suo amico Nazarbayev, colui che nella dacia era pronto a offrirgli dodici ragazze dodici.

Come in un film dell’orrore, dopo una lunga incubazione, le uova avvelenate sparse nella politica e negli apparati dello Stato stanno generando tanti piccoli caimani dai dentini affilati, spregiudicati, opportunisti. Spesso, direbbe Cordero, monchi dell’organo morale. Ma, per una strana mutazione della specie, invertebrati.

Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2013

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