“I ruoli femminili nei media, a mio avviso, sono piuttosto deleteri per l’effetto depauperante che hanno nei confronti delle potenzialità delle donne: le ragazze oggi fanno più fatica, di qualche decennio fa a immedesimarsi in ruoli emancipati ed influenti, soprattutto se non crescono in contesti sociali evoluti, e in Italia molte zone sono ancora culturalmente depresse”. Paola Manfroni, art director dell’agenzia Marimo e vicepresidente dell’Adci, l’Art director club Italia, commenta “l’utilizzo umiliante” che si fa dell’immagine delle donne nella pubblicità.

C’è un problema di utilizzo umiliante della donna in pubblicità, secondo lei?
C’è anche un problema di utilizzo umiliante della donna, che preferirei definire utilizzo umiliante del genere umano, perché anche gli uomini teoricamente destinatari del messaggio vengono trattati da trogloditi.

Paola Manfroni

La presidente della Camera Laura Boldrini ha sollevato la questione dichiarando recentemente che “serve porre dei limiti all’uso del corpo della donna nella comunicazione”. E’ reale questo rischio di passare “dall’oggettivazione dei corpi alla violenza”?
Questo sillogismo mi lascia perplessa. I libri di storia sono purtroppo intrisi di violenza, di genere e non, da molto prima che esistessero la pubblicità e i media di massa. Nondimeno approvo totalmente e istintivamente il tentativo della presidente Boldrini di chiamarci tutti a riflettere su fenomeni nuovi di portata universale, i cui effetti non sono studiati: è come se avessimo immesso sul mercato cibi artificiali senza alcuna sperimentazione. I ruoli femminili nei media, a mio avviso, sono piuttosto deleteri per l’effetto depauperante che hanno riguardo alle potenzialità delle donne: le ragazze oggi fanno più fatica, di qualche decennio fa ad immedesimarsi in ruoli emancipati ed influenti, soprattutto se non crescono in contesti sociali evoluti, e in Italia molte zone sono ancora culturalmente depresse. La violenza visiva e verbale dei social network è molto più spaventosa, per non parlare dell’esplosione dell’accesso alla pornografia, che alcuni studiosi cominciano a derubricare da manifestazione di liberazione sessuale a fenomeno con ricadute pesanti sull’evoluzione sentimentale e sessuale degli adolescenti e sulla vita sessuale degli adulti: non si parla di moralismo, ma di impoverimento dell’esperienza umana, fino a provocare danni esistenziali. In questo ambito credo molto nelle azioni preventive e positive di contrasto e pochissimo nella repressione successiva: quando si è consumata la lapidazione digitale di una ragazzina in rete a poco serve punire i responsabili, peraltro già ora rintracciabili e perseguibili.

Davvero secondo lei l’Italia rappresenta un’eccezione nel panorama europeo?
La diversità della nostra pubblicità dal resto d’Europa è un dato di fatto. Ma quella parte di pubblicità sessista nasce fuori dai percorsi professionali sani, mentre ha principalmente due sorgenti: quella della marginalità amatoriale, piccole aziende che cercano di farsi notare sdraiando la cugina belloccia mezza nuda sulle piastrelle di loro produzione, e quella della malaimpresa italiana, manager impreparati selezionati solo per catene di fedeltà alla cordata, che rafforzano i loro legami da spogliatoio condividendo starlettes e mazzette: questo non influenza solo la qualità dei messaggi, ma anche e molto la carriera delle donne all’interno di queste cordate. La responsabilità delle multinazionali è decisamente minore, almeno in questo campo, si muovono all’interno di processi standardizzati globalmente, e a volte ci portano anche aperture che non ci sogneremmo (al mondo gay, alle razze, alla bellezza non stereotipata).

Anche l’intrattenimento televisivo propone spesso un certo modello di donna. Secondo lei fa parte di un’estetica ormai accettata dal pubblico o rappresenta un modello da superare?
La natura umana si abitua a tutto. Ma questo modello sarà presto sepolto, e non è detto che il prossimo sarà migliore, se non ci mettiamo al lavoro con immaginazione e buona volontà.

Il continuo uso della donna in pubblicità per alcuni è una scorciatoria di facile presa che alla lunga rischia di annoiare. Secondo lei come reagisce il pubblico a queste campagne?
Non ho dati, perché in 25 anni di attività non mi è mai capitato di dover usare un corpo femminile strumentalmente. Dal momento che ho lavorato per un’agenzia internazionale con un centinaio di brand in portfolio, tutte aziende aggressive in cerca di risultati reali, sono abbastanza sicura di poter trarre una conclusione: c’è sempre un modo più professionale di raggiungere i risultati, l’uso oggettivante del corpo della donna è solo la scorciatoia degli “untalented” – parola di cui non esiste traduzione in italiano, e non è un caso. Questo è anche il senso del mio impegno con l’Art directors club italiano: da 27 anni selezioniamo e premiamo la migliore comunicazione italiana, in coerenza con le linee del manifesto deontologico che sottoscriviamo e in dialogo con le principali manifestazioni europee e mondiali. Conosco le centinaia di campagne premiate, e conosco personalmente gran parte degli autori che in questo quarto di secolo hanno prodotto comunicazione in modo professionale. Non ricordo un solo annuncio selezionato che definirei “sessista” né per l’oggettivizzazione del corpo femminile né per l’uso scorretto di stereotipi. Dove c’è eccellenza e merito, non c’è bisogno di censure.

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