Una commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti accusa Apple di praticare una complessa forma di elusione fiscale. Non è la prima volta che succede. La stessa accusa è stata rivolta a Microsoft, HP, Google e Amazon, solo per rimanere nel settore. Attenzione: si parla di elusione e non di evasione. In pratica, la commissione ha solo certificato quello che tutti sappiamo da anni: i colossi finanziari utilizzano la loro struttura societaria per arrivare a quella che chiamano ottimizzazione fiscale. In buona sostanza, si dirottano  gli utili nei paesi che offrono la possibilità di pagare tasse inferiori, eludendo il principio per cui le tasse andrebbero pagate dove si guadagna.

Non occorre aspettare commissioni e indagini per capirlo. Per avere un quadro chiaro della situazione basta guardare al quotidiano: le ricevute che ricevo per i noleggi dei film in streaming riportano in calce l’intestazione “iTunes S.à r.l.”, mentre quelle per gli e-book arrivano da “Amazon Media EU S.à r.l.”. L’elemento comune è quella sigla, S.àr.l. che sta per “Société à responsabilité limitée”, forma societaria usata in Svizzera, Lussemburgo e Francia. Inutile dire che, in entrambi i casi, la sede è in Lussemburgo.

Sia chiaro: tutto avviene alla luce del sole ed è tutto perfettamente legale. E a farlo non sono solo le corporation dell’IT, ma tutte le aziende e, tra queste, anche quelle che sono sotto il controllo pubblico. Basta dare un’occhiata alla struttura societaria di qualsiasi azienda italiana di grandi dimensioni per scoprire una selva di partecipazioni azionarie incrociate e società controllate con sedi in paesi che rientrano (con maggiore o meno intensità) nella categoria dei paradisi fiscali: Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Isole Vergini e via dicendo. Nel mondo dell’Information Technology, però, il fenomeno ha dimensioni maggiori. Anche grazie al fatto che le vendite di beni immateriali (film, musica, e-book, software) si prestano più di altri a questo giochetto.  

Le conseguenze della corsa all’ottimizzazione fiscale sono due. La prima è la più ovvia, ovvero la sottrazione di denaro al fisco del paese di origine. Nel caso di Apple, il Senato Usa quantifica l’elusione in svariati miliardi di euro. In tempi in cui il debito pubblico è la vera ossessione economica di qualsiasi governo, è ovvio che i mancati incassi di cui sopra rappresentino un problema. La seconda conseguenza deriva direttamente dalla concezione di globalizzazione com’è stata intesa nel terzo millennio e si concreta in una sorta di corsa all’abbassamento delle tasse.

Nasce così una nuova categoria di nazioni, non classificabili come veri paradisi fiscali, la cui caratteristica principale è l’opacità nella gestione e nei controlli, ma considerabili come ‘tax friendly’, cioè con pressioni fiscali ridotte  e quindi più appetibili per le corporation che vogliono utilizzarli come base per i loro affari. L’Irlanda è uno dei paesi che sta puntando decisamente su questo meccanismo, ma guardando ai dati globali si scopre che  la riduzione della tassazione per attirare i capitali è un fenomeno generalizzato. Il risultato è che, anche quando i soldi rimangono ‘in casa’, i proventi per lo Stato sono minori.

Tuttavia, le iniziative per mettere riparo a tutto questo tardano ad arrivare, mentre le proposte di regolamentazione di Internet si concentrano solo sulla  tutela del copyright, il controllo delle comunicazioni e altre amenità di cui, francamente, si sente ben poco il bisogno. Se agenda digitale deve essere, agenda digitale sia. Ma a livello (almeno) europeo e con una voce molto chiara in testa alle priorità: le tasse 2.0.

 

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