Proprio mentre il patron della Border Community, James Holden, pubblica (finalmente) un nuovo eccitante singolo, Gone Feral, a far da preludio all’atteso ritorno a sette anni di distanza dal suo profetico The Idiots Are Winning (The Inheritors uscirà ufficialmente il 17 giugno) ecco giungere in città il suo più fedele compagno di strada e di etichetta. Nathan Fake, nato e cresciuto nel Norfolk ed in seguito londinese d’adozione, esordisce nel 2003 con il 12” Outhouse (BC02, lo 01 di catalogo l’aveva sfornato Holden un attimo prima): non appena scende la testina del giradischi pare quasi di sentire una versione house progressiva, innervata di techno, di quei Boards Of Canada intensissimi e sfocati autori l’anno precedente di una delle loro pietre miliari, Geogaddi.

Tempo un anno ed è già capolavoro o perlomeno la versione germinale di ciò che lo diventerà a tutti gli effetti quando affogherà in un mare d’amore: la spazialità emotiva e la mobilità sensoriale di The Sky Was Pink sembra variare d’ampiezza, cadere in picchiata ed ascendere in un crescendo gonfio, drammatico ed al contempo estatico, un volo pindarico che forse nessuno ha più eguagliato. Se si ascoltano i primissimi lavori di Godspeed You! Black Emperor e Silver Mount Zion ci si può rendere conto di quanto Nathan Fake riesca in certi frangenti a trascendere i generi e ad abbracciare analogie addirittura con il post-rock: in questo dimostra ad esempio affinità con l’approccio di Apparat. In seguito soltanto Dan Snaith aka Caribou, con Sun, è riuscito ad emulare Icaro e a spalancare simili precipizi e canyon emotivi. Guarda caso un altro autore che ha fatto un percorso sui generis: dall’indie rock all’elettronica sino alle ibridazioni house di Daphni ma sempre con la medesima apertura mentale e tendenza allo sconfinamento. Del resto, se la label di James Holden si chiama Border Community – in italiano potremmo tradurre come “comunità di confine” – dovremmo scorgere in questa dichiarazione programmatica una sorta di esemplificazione di quanto sin qui sostenuto.

Il primo album di Nathan Fake, Drowning In a Sea of Love esce nel 2006 e dispiega appunto un’elettronica dalle spiccate tendenze melodiche, in bilico tra ambient e IDM a battuta spesso bassa, in cui domina The Sky Was Pink. Tre anni dopo lo ritroviamo con Hard Islands a ridefinire il suo stile pigiando sull’acceleratore del ritmo in direzione della house e della techno: la perfetta summa di tutto il discorso è rappresentata dai nove minuti di un pezzo monumentale, incalzante, siliceo, cinetico come Castle Rising. La chiave di lettura più appropriata per interpretare la tappa successiva della sua discografia, a puntuale distanza di un triennio, rispettando la regolare cadenza delle uscite. Steam Days è un disco non imprescindibile ma nel complesso riuscito e godibile: respiro tecnologico, atmosfera steampunk in un mix di declinazioni che flirtano sia con le fascinazioni retrofuturistiche di Jamie Vex’d aka Kuedo quanto con i mondi di silicio degli Autechre, le visioni caleidoscopiche dei Boards Of Canada, la mobilità di Clark. Il meglio esce allo scoperto quando Nathan Fake sembra esprimere con più grinta e maniacalità una sua più personale opinione delle cose: pezzi come Neketona e Glow Hole sono infatti tra i migliori che il Nostro abbia prodotto in tutta la sua ormai decennale carriera.

Nathan Fake live al Kindergarten, Bologna, venerdì 5 aprile. Nel corso della serata anche il live di Noumeno ed i dj set di Muto e di Roswell.

Articolo Precedente

Pret a basier, la danza in un bacio gay di Dubois ai Teatri di Vita

next
Articolo Successivo

Orchestra Maniscalchi, dal Manzoni parte il tour nazionale Diamoci del tu

next