Un nuovo colpo alla lotta all’Aids. Un team di ricercatori della Johns Hopkins, dell’Università del Mississippi e dell’University of Massachusetts descrive infatti il primo caso al mondo di ‘cura funzionale’ in un bebè affetto da Hiv e trattato subito dopo la nascita. La scoperta, dicono i ricercatori, può aiutare a spianare la strada verso l’eliminazione dell’infezione da Hiv nei bambini. La relazione sul caso viene fatta in occasione della 20.ma Conferenza sui Retrovirus e le infezioni opportunistiche (Croi) di Atlanta. La virologa del Johns Hopkins Children Center Deborah Persaud ha diretto un team di ricercatori di laboratorio, mentre la specialista in Hiv pediatrico Hannah Gay dell’Università del Mississippi Medical Center ha somministrato la cura al bimbo. Il piccolo che ha raggiunto la remissione dell’infezione da Hiv aveva ricevuto la terapia antiretrovirale entro 30 ore dalla nascita.

I ricercatori sono convinti che la rapida somministrazione del trattamento antivirale probabilmente è riuscito a curare la bambina, arrestando la formazione dei serbatoi virali, cellule dormienti responsabili della riacutizzazione dell’infezione nella maggior parte dei pazienti poche settimane dopo l’interruzione della terapia. “La terapia antivirale nei neonati, che inizia a pochi giorni di esposizione, può aiutarli a eliminare il virus e a raggiungere una remissione a lungo termine, impedendo così la formazione di nascondigli virali”, spiega Persaud. I ricercatori dicono che questo è proprio ciò che è accaduto nel bambino descritto nella ricerca. Questo piccolo è ora considerato “funzionalmente guarito“, una condizione che si verifica quando un paziente raggiunge e mantiene una remissione a lungo termine – in assenza di trattamento per tutta la vita – e i test clinici standard non riescono a rilevare la replicazione virale nel sangue.

A differenza di una cura sterilizzante – una completa eradicazione di tutte le tracce virali dal corpo – la cura funzionale si verifica quando la presenza virale è tanto minima, che rimane ‘invisibile’ ai test standard, ma è ancora rilevabile con metodi ultrasensibili. Il bambino descritto nel lavoro era nato da una mamma affetta da Hiv ed è stato sottoposto a un cocktail antiretrovirale entro 30 ore dalla nascita. Una serie di test hanno mostrato la progressiva diminuzione della presenza virale nel sangue della piccola, fino a raggiungere livelli non rilevabili 29 giorni dopo la nascita.

La bimba è rimasta sotto antivirali fino a 18 mesi, a quel punto ha saltato il follow-up per un po’ e, spiegano i ricercatori, di fatto ha interrotto il trattamento. Dieci mesi dopo lo stop delle cure la bambina ha subito ripetuti esami del sangue, senza che questi rilevassero la presenza di Hiv. Anche i test anticorpo-specifici hanno dato lo stesso risultato. Questo caso particolare, dicono i ricercatori, potrebbe cambiare la prassi medica per i bambini nati da donne sieropositive. “Il nostro prossimo passo è quello di scoprire se questa è una risposta insolita o qualcosa che si può effettivamente replicare in altri neonati ad alto rischio”, conclude Persaud. La ricerca è stata finanziata dai national Institutes of Health americani e dall’Amfar (American Foundation for Aids Research).

Il caso della bimba del Mississippi, che ora ha due anni e mezzo, se confermato, s sarà il secondo documentato di un paziente guarito dall’Aids. Il primo è quello di un uomo adulto, Timothy Brown, noto come il paziente di Berlino, guarito nel 2007 dopo un trapianto di midollo osseo. La bimba è stata curata con medicinali antiretrovirali sin da 30 ore dopo la sua nascita, una pratica inconsueta. “Per i pediatri si tratta del nostro Timothy Brown”, ha detto la dottoressa Persaud. I ricercatori esortano però alla cautela, sottolineando che al momento si tratta di un caso unico.

La pratica stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che un bimbo nato da una mamma infetta dall’Hiv venga curato con una quantità limitata di antiretrovirali per quattro o sei settimane, fino a che il bimbo non risulti a sua volta positivo ad un test, nel qual caso si aumentano le dosi. Nel caso della bimba del Mississippi, quando la sua mamma è andata a partorire in un piccolo ospedale di campagna non sapeva di avere l’Hiv, e quando è risultata positiva al test, la bimba, che era nata da poco più di un giorno, è stata trasferita ad un ospedale dove le è stato immediatamente a sua volta praticato il test. Secondo la dottoressa che Hannah Gay, che ha esaminato il risultato, la bimba era stata infettata quando era ancora nel grembo della madre, piuttosto che durante il parto e poiché il livello di infezione era ancora basso ha immediatamente prescritto alla bimba tre differenti farmaci come trattamento, e non come profilassi. I livelli del virus si sono ridotti rapidamente, e dopo un mese non erano neanche più rilevabili. E ancora così fino a che la bimba non ha compiuto 18 mesi. Poi la madre ha smesso di farle fare i test per cinque mesi, ma quando ha ripreso, di nuovo sono risultati negativi.

La dottoressa Guy ha quindi fatto sottoporre la bimba ad una serie di testi più sofisticati, che hanno rilevato solo piccole tracce del virus integrate nel materiale genetico, che però non sono in grado di replicarsi. Secondo i medici, la decisione di intervenire con i farmaci sin da poche ore dopo la nascita ha impedito la formazione della cosiddetta riserva virale che ospita il virus e dal momento che il virus non è stato più rilevato nel sangue della bimba, il trattamento è stato quindi sospeso. Poiché da allora non è stato più rilevato il virus, affermano i medici, evidentemente la bimba è guarita.

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