Per quasi trent’anni ho votato, consapevole dei miei doveri di cittadino, fiero di quanto era stato fatto per ottenerli e garantirli alla mia generazione. Ma adesso basta. Alle prossime elezioni non voterò. Non voglio più essere corresponsabile, come sono già stato, della conduzione della politica e delle questioni del Paese nella direzione opposta a quella che vorrei. Non posso più unirmi alla moltitudine che avalla con una croce un’idea di finanza egemone ed economia sconsiderata; non posso più vidimare col sacro esercizio del consenso una politica prona, schiava dei grandi interessi, che propugna la crescita ad oltranza, che chiede sacrifici per ripristinare la catena spezzata del lavoro-produco-consumo-spreco-inquino; non voglio più votare qualcuno perché altri non vincano, visto che quel qualcuno, chiunque esso sia, non è così dissimile dall’altro nell’organizzazione del partito, nell’inesistente garanzia contro criminalità, sprechi, corruzione, dissipazione del denaro pubblico; non posso più tollerare che se si va per la via opposta a quella che vorrei intraprendere, per la quale sarei in grado di lavorare e combattere, ci si vada anche nel mio nome.

O il voto non conta, e allora non avrebbe senso votare, oppure conta e ha valore, e allora non posso gettarlo via. Non voterò, sperando che il 51% dell’elettorato faccia altrettanto, che in tanti decidano per la dignità del voto e dell’elettore come perno del processo di convivenza, che quest’ordine di cose finisca in minoranza, venga delegittimato, e sia possibile domani guardare al malaffare e al potere come a una minoranza che governa senza la maggioranza del consenso del Paese, dunque sostituibile, da espellere, priva di reale rappresentanza. E’ l’unica cosa che mi resta: testimoniare che nel noto tranello “della minestra o della finestra”, non sono più disposto a cadere.

Pretendo, tuttavia, di essere trattato con la dignità che questa scelta grave incarna. Decidere di non votare è un voto tanto quando andare alle urne. Significa togliere il consenso, l’unica arma della gente. E non voglio essere considerato, per questo, né indeciso né apatico e irresponsabile, come disegnano maliziosamente i sondaggisti, i primi vassalli del potere. Hanno chiamato il nostro sconcerto “antipolitica”, che abbiano almeno rispetto per lo sforzo della dignità di giudizio. E’ per profondo rispetto verso il voto che non voterò, e non certo per indecisione, semmai per la determinazione grave e pienamente responsabile di non poter sottoscrivere alcuna offerta sbagliata, pena la correità. Della grande maggioranza delle proposte politiche non ho stima, fiducia, e il mio giudizio è pesante, d’accusa; di una piccola parte delle proposte, che pure in alcuni contenuti potrei condividere, non condivido il metodo, mi fa paura anche solo l’ipotesi della democrazia diretta che propugna.

Non voterò i corrotti, che parlano di pulizia nella politica solo dopo che la magistratura li ha scoperti; non voterò chi pure intende rappresentare il cambiamento, ma che è convinto che l’elettorato che fin qui ha votato l’invotabile possa, domani, decidere con un referendum se l’Italia deve restare o no nell’Euro. L’ultimo miglio per arrivare al punto l’ha percorso Bisio a Sanremo: “Non serve cambiare i politici. Dovremmo cambiare gli elettori”. Con quel monologo (un altro comico a occupare lo spazio lasciato vacante dagli intellettuali) l’ampio dibattito sulle ragioni dell’astensionismo si è concluso. Io valgo uno, un elettore, e voglio cambiare.

Per troppi anni ho fatto, abbiamo fatto, in molti, l’errore di considerare il nostro voto come un gesto parziale e ininfluente, oppure essenziale e determinante. Qualunquisti o creduloni, abbiamo favorito, consentito, avallato quella che Noam Chomsky chiamava la “fabbricazione del consenso” attraverso la propaganda, e che Michail Bakunin indicava come “il gioco di prestigio” necessario “per nascondere il potere realmente dispotico dello Stato” basato sull’economia.

“Così favorisci questo o quello…” “Così lasci che altri decidano per te…” “Così non puoi più lamentarti….”. Ecco: la cosa peggiore che il potere può fare per svilire, disintegrare il valore già discutibile del suffragio universale nelle società democratiche, è generare e alimentare il senso di colpa riguardo il non-voto da parte degli elettori esterrefatti e indignati, critici verso lo schema d’impostazione socioeconomica e i suoi rappresentanti, e al tempo stesso, tuttavia, offrire ai cittadini un solo metodo di voto pilotato per salvaguardare un pensiero del Paese impresentabile e vecchio, in modo che qualunque cosa accada, come nel più becero “gioco delle tre carte”, le cose vadano “come devono andare”. Se c’è una cosa che il sistema non ama, sono le sorprese. Arriverebbe a tutto pur di evitarle.

Non siamo giunti per caso fin qui, allo sfacelo. Ci siamo arrivati con il progressivo avvilimento del voto. Per troppo tempo, decenni, abbiamo dato la nostra preferenza “al meno peggio”, oppure abbiamo votato Caio perché altrimenti avrebbe vinto Tizio. Mai, o quasi mai, abbiamo eletto candidati e partiti con cui avessimo concordanza, di cui condividessimo l’idea di Paese. La politica che abbiamo preferito, come media del consenso nazionale, ci ha rappresentati proprio in questa vaghezza, nel calcolo con cui l’avevamo scelta, ed è stata perfino migliore del Paese, per quanto possa sembrare impossibile: la compensazione democratica, la marcatura reciproca tra maggioranza e opposizione che si è verificata in Parlamento, ha infatti mitigato quel che nel Paese è assai più diffuso che nella politica: un radicato sentimento dell’opportunismo, dell’illegalità, della convenienza particolare, della corruzione. Tutte doti che ben si associano al compromesso del voto con questi candidati, questa politica, questo potere. Tutti vizi che rendono impossibile, potenzialmente devastante, una pur parziale democrazia diretta come propugna l’unico candidato di cui condivido gran parte del programma.

Con un sistema elettorale alieno da qualunque democrazia elettiva su base rappresentativa, con un sistema di pensiero politico che continua a sperare nella ripresa dei consumi come garanzia del benessere, con una classe imprenditoriale che ha mancato del tutto l’appuntamento storico con la creazione e la conservazione di valore, non potevamo che trovarci qui, oggi, inebetiti e maltrattati da una campagna elettorale oscena, che si fa quotidiane beffe della pur minima capacità di giudizio e che taccia per antipolitica la doverosa indignazione, per qualunquismo la protesta, per irresponsabilità l’astensione. Ogni messaggio che ci giunge da quella direzione va ignorato. E’ propaganda. Crederci, seguirlo, è già compromissione.

Il voto, per me, per molti, è già da tempo l’azione. Vivere diversamente, tentare di essere diversamente, percorrere le infinite vie che il tempo liberato e l’anima sollevata possono calcare occupandoci dei cittadini che siamo. La nostra azione di voto e la nostra testimonianza politica sono ogni giorno nel traffico dove non saremo, nei rifiuti che tenteremo di limitare e differenziare, nell’ambiente a cui recheremo il minor danno, nei consumi che limiteremo, nei lavori assurdi e dannosi che non faremo, nelle relazioni autentiche che tenteremo di costruire, nell’embargo a prodotti fungibili o nocivi, nella disubbidienza civile da leggi sbagliate,  nell’azione accurata e metodica di sottrazione dalla follia di un sistema che economisti, politici, imprenditori e buona parte dei cittadini di questo Paese considerano ineluttabile, correi tutti del danno immane che produce per noi e per quelli che verranno. A queste quotidiane elezioni voterò, ogni giorno, agendo invece di delegare con una croce e una matita, sotto la mia autentica responsabilità di cittadino.

Alle vostre elezioni truccate, indecenti, alla vostra proposta politica sbagliata e corrotta, ecco, a quelle no, non parteciperò. E la mia, quel giorno, non permettetevi di chiamarla assenza.

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