Da qualche giorno sul sito web Miur di ciascuno dei Professori Ordinari delle Università italiane è comparso un “semaforo” verde, giallo o rosso, che dice se il docente appartiene alla metà dei più bravi (secondo i criteri Anvur), è in bilico, o appartiene alla metà dei meno bravi. Solo i più bravi possono avere l’onore di essere membri di commissioni di concorso, fare tutto il lavoro di valutazione dei candidati, difendersi nei prevedibili ricorsi, etc.. (bel premio!). 

Come molti dei lettori di questo blog sanno bene, io ho fortissime perplessità su queste valutazioni “meritocratiche” e ritengo che il loro impatto sarà sostanzialmente negativo. A scanso di equivoci: il mio semaforo è verde, quindi non difendo un interesse personale e faccio invece una questione generale, in questo caso sui criteri utilizzati dall’Anvur (consultabili a questa pagina web) per stabilire chi è bravo e chi no. 

Le intenzioni dichiarate del legislatore (in pratica si parla della riforma preparata dall’ex Ministro Maria Stella Gelmini: una garanzia) erano quelle di introdurre una sana valutazione del merito nell’Università italiana, ritenuta preda delle voglie dei baroni. Le intenzioni reali del legislatore erano almeno anche, se non solo, quelle di far ricadere la colpa del taglio selvaggio del finanziamento dell’Università (attuato dall’ex Ministro Giulio Tremonti) sui docenti: finanziamo i bravi e non i somari; se non siete finanziati è colpa vostra e non delle criminali politiche economiche del nostro governo, presieduto dall’On. Berlusconi.

Purtroppo anche se le reali intenzioni fossero state buone, e non lo erano, la macchina messa in moto per valutare l’Università italiana ha lavorato in modo pessimo, peraltro in parte per colpa delle leggi alle quali ha dovuto obbedire (se ne è discusso in modo molto approfondito sul sito di Roars). Infatti l’Anvur ha stabilito una serie di criteri di valutazione delle attività di ricerca dei docenti basati essenzialmente su indici numerici o pseudo-numerici che dovrebbero misurare la qualità delle loro pubblicazioni scientifiche. 

L’Anvur non si è minimamente preoccupata di un aspetto essenziale della valutazione: quando la misura del grado di conseguimento di un obiettivo (in questo caso, presumibilmente, la “qualità” del docente nella didattica e nella ricerca) è effettuata attraverso parametri (in questo caso il numero delle pubblicazioni e il numero delle citazioni ricevute), i parametri tendono a sostituirsi agli obiettivi nella considerazione del soggetto valutato. Ovvero, in questo caso: mi valuti in funzione delle pubblicazioni? Farò meno didattica possibile per dedicarmi a pubblicare; mi valuti in funzione del numero di citazioni che le mie pubblicazioni ricevono? Farò tante pubblicazioni di modesto livello che si citano tra loro, piuttosto che poche ma buone; e via dicendo…

Cosa si sarebbe dovuto fare? In primo luogo selezionare indicatori meno rigidi e più completi rispetto ai compiti istituzionali dei docenti (la didattica è stata sostanzialmente dimenticata); in secondo luogo selezionare indicatori più robusti, resistenti alla manipolazione da parte dell’interessato (ad esempio: scartare le autocitazioni dal computo delle citazioni); in terzo luogo resistere alla tentazione di sostituire i criteri numerici al giudizio dei colleghi, anche stranieri (il criterio numerico piace perché sembra imparziale: lo calcola un computer; ma non è quello che col quale si selezionano i premi Nobel e questo vorrà pur dire qualcosa).

Ripetiamolo: l’Università italiana non è affatto cattiva e vi si svolge ottima ricerca scientifica (si veda ad esempio questo link): sottofinanziarla e valutarla malamente con criteri che incoraggiano comportamenti improduttivi scientificamente e didatticamente non può che farla peggiorare. E di questo non abbiamo certamente bisogno.

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