Esistono ma nessuno ne parla. È la storia dei tanti acquedotti rurali presenti nell’appennino reggiano e che rappresentano una vera e propria rivoluzione in termini di gestione dell’acqua come bene pubblico. Era il secondo dopoguerra e i contadini, piccone e pala alla mano costruirono acquedotti là dove c’erano fonti e corsi d’acqua: strutture efficienti, che dopo mezzo secolo funzionano ancora. 40 euro circa, la spesa annua per ogni abitante, che deve semplicemente far fronte alle spese di gestione e manutenzione.

A mettere in luce questa realtà, due cittadini di Villa Minozzo, Graziano Malvolti e Benedetto Valdesalici, e Tommaso Dotti, membro del Comitato Acqua Bene Comune di Reggio Emilia. Dal loro incontro è nato un documentario, testimonianza storica di un fenomeno unico presentato al Festival di Civago “La montagna incantata”: “si chiama Picc e Pala con un titolo che rende omaggio al lavoro di pala e piccone dei contadini. È una storia di acqua pubblica e beni comuni, all’epoca di multiutility e manager strapagati, che riaccende la discussione su di un sistema da troppo tempo ignorato, ma presente in tutta Italia. E se gli oppositori rivendicano il fatto che le realtà siano sempre molto piccole, gli autori rispondono con l’esempio di San Bartolomeo, frazione della città di Reggio Emilia, che si serve di un acquedotto rurale.

“L’acqua pubblica è più buona rispetto alle altre”, dicono così gli abitanti dell’appennino reggiano intervistati da Valdesalici e Malvolti, anziani depositari di una tradizione comunitaria che non hanno nessuna intenzione di abbandonare. “Abbiamo deciso di portare avanti questo progetto, – dicono gli autori del documentario autofinanziato, “per cercare di parlare di questa terza via sconosciuta ai più. Pensavamo di andare a recensire un territorio rurale caratterizzato da piccole strutture e invece abbiamo trovato una soluzione per il futuro”.

Gli acquedotti rurali fanno arrivare nelle case l’acqua direttamente dalle fonti e la spesa dei cittadini è solo quella della manutenzione. I cittadini sono i soci e riuniti in consorzi, si incontrano periodicamente per parlare dello stato del sistema idrico, dove il presidente è un volontario eletto ogni anno. “È una gestione democratica di un bene pubblico”- aggiunge Graziano Malvolti, – dove i cittadini non sono clienti, ma utenti. Si tratta di una soluzione per il futuro, ma a patto che la gente abbia coscienza. Solo perché non abbiamo il contatore non vuol dire che possiamo tenere aperto il rubinetto finché vogliamo”.

È stata la legge 911 del dopoguerra a permettere la costruzione di tali acquedotti, quando lo Stato proprio per permettere la ricostruzione, offrì la possibilità agli abitanti di quelle zone di pagare la struttura in cambio di manodopera. “Ho conosciuto queste realtà”, racconta Tommaso Dotti, membro del Comitato Acqua Bene Comune, e studente dello IUC di Torino, master sui beni comuni creato da Ugo Mattei, “durante la campagna di raccolta firme per il referendum del 2011.

Mi ricordo ancora una sera di dicembre, a Busana quando ho assistito alla riunione di un consorzio dell’acqua: adulti, bambini e anziani, nella sala civica a parlare della loro rete idrica. Lì ho deciso che volevo saperne di più”. Una tesi di laurea in Storia contemporanea e l’incontro con gli autori di “Picc e Pala”, hanno portato Tommaso a studiare gli acquedotti rurali dell’appennino, il quale aggiunge: “Per trovare i documenti che parlano della storia di questi acquedotti, ho dovuto girare casa per casa, perché non si trovano negli archivi comunali, ma nelle case degli abitanti, quegli stessi che hanno lavorato per la costruzione tante ore quanti i membri della famiglia o il bestiame a carico. Gli acquedotti rurali sono rivoluzionari perché sono il simbolo della resistenza al mercato, il piccolo che si oppone al gigante, il cittadino che difende il territorio dalla finanza”.

Febbio, Riparotonda, Monte Orsano, Coriano, Santonio, Cavizzo, Cadignano, Gazzano, Sommaterra, Pietracchetta, Casepelati, Cervarolo, Case di Civago, Civago, Romita, Triglia, Pizzola, Sologna, sono i 18 acquedotti rurali censiti dal documentario, e che corrispondono alle frazioni del Comune di Villa Minozzo, che invece è gestito da Iren. “Non si tratta di essere egoisti – aggiunge Benedetto Valdesalici, – ma di essere consapevoli di quello che si ha. Siamo partiti con l’idea che le differenze sono utili e che un altro modo di gestire l’acqua è possibile ed è quello che abbiamo trovato.

È difficile riproporre questo sistema in grandi città come Reggio Emilia, ma di certo è una soluzione che potrebbe funzionare su piccola scala”. Un acquedotto costruito e gestito dai cittadini, dove il tubo lo ripara il fabbro del paese e una volta per tutte e se hai bisogno di un’informazione sulla rete idrica bussi al vicino, invece che chiamare un call center a Genova o Torino. Cartoline d’altri tempi che in appennino continuano a funzionare e che forse, dicono i protagonisti, potrebbero essere il modello per rivoluzionare il rapporto tra acqua e cittadini.

PERCHÉ NO

di Marco Travaglio e Silvia Truzzi 12€ Acquista
Articolo Precedente

Poste, sindaci boicottano i conti correnti: “Tagliare uffici è colpire la povera gente”

next
Articolo Successivo

Inceneritore di Parma, Iren tira dritto. La giunta Pizzarotti tenta l’ultimo dialogo

next