Nel dibattito che abbiamo provato a suscitare tramite questo blog, qualcuno ha sostenuto che non sia necessario il termine intercultura, ma si debba parlare semplicemente di cultura senza inutili distinzioni.

Per non lasciare cadere questi aspetti sempre più rilevanti, come vediamo dalle difficoltà sociali, politiche e culturali (o interculturali?), ne abbiamo chiesto conto a Marco Aime, antropologo, professore associato dell’Università di Genova (tiene i corsi di Antropologia Culturale, Antropologia delle Società Complesse e Discipline Demoetnoantropologiche) e scrittore di numerosi saggi e libri di narrativa. Aime è anche uno degli autori del Suq (ha scritto con noi Gli stranieri portano fortuna.

Ha senso parlare di intercultura, o semplicemente basterebbe il termine cultura, se sapesse comprendere le istanze dell’oggi, la necessità del dialogo?
Ha senso perché il dialogo, l’incontro tra esponenti di culture diverse avviene sempre in una sorta di terra di nessuno, in un territorio neutro. Entrambi devono fare un passo in avanti per abbandonare le loro abitudini e aprirsi all’altro. Questo avviene in una dimensione di frontiere che è sempre “tra”.

Che rapporto c’è tra i termini “intercultura” e “integrazione”?
Se per intercultura intendiamo, appunto, una forma di dialogo, il dialogo è la base dell’integrazione, purché sia un dialogo tra pari.

E che differenza tra “multicultura” e “intercultura”?
Un contesto multiculturale prevede dei blocchi divisi, che convivono, ma che conservano le loro precise identità. Un ambito interculturale è invece fatto di relazioni e si presenta più come un processo, un cantiere continuo, che crea nuove forme culturali.

A noi questa idea del cantiere continuo che crea nuove forme culturali piace molto. Che ne pensate?

Carla Peirolero e Giacomo D’Alessandro, con Marco Aime

(Nella foto: Eyal Lerner e Jamal Ouassini nello spettacolo “Gli stranieri portano fortuna”)

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