Cresce la tensione nell’ex Tibet, dal 1950 occupato e inglobato nel territorio cinese. La nuova ondata di disordini e repressione è stata scatenata il 16 ottobre dal ferimento a raffiche di mitra di due giovani tibetani da parte della Polizia cinese. È successo a Kardze, nel Tibet orientale, nell’odierna provincia dello Sichuan, mentre un gruppo di tibetani si era riunito per una dimostrazione pacifica davanti alla stazione di polizia lanciando slogan per la libertà e il ritorno dall’esilio del Dalai Lama a Lhasa, l’ex capitale. La polizia ha cominciato a sparare sulla piccola folla ferendo gravemente due ragazzi, Dawa e Druklo, e arrestando sette persone.

Poche ore prima Tenzin Wangmo, una monaca di circa venti anni del monastero di Dechen Choekhorling a Ngaba, sempre nello Sichuan, è morta immediatamente dopo essersi data fuoco. Prima aveva camminato per 7 o 8 minuti in una via vicino al monastero inneggiando alla libertà del Tibet e il ritorno del Dalai Lama. Nonostante l’ultimatum delle autorità cinesi, il suo corpo è stato preso dalle consorelle. La situazione intorno al monastero, che ospita circa 350 monache, viene descritta come molto tesa. In un video dell’agenzia AFP si vede la città di Ngaba tenuta sotto assedio dalle truppe armate paramilitari cinesi allineate lungo le strade.

Il 20 ottobre altri due monaci sono stati arrestati a Ngaba mentre Jiang Yu, portavoce del ministro degli Esteri cinese, ha assicurato che le autorità locali prenderanno “misure più drastiche per assicurare l’incolumità della gente e delle loro proprietà e il normale ordine sociale”. Ha negato l’esistenza di un “problema Tibet”.

Dal marzo di quest’anno salgono a nove le persone che si sono immolate con il fuoco per protesta contro l’occupazione del Tibet. Sono monaci o ex monaci e una suora, tutti di età compresa fra i 29 e 17 anni. Lobsang Phuntsok, Tsewang Norbu, Khaying, Choephel e Tenzin Wangmo sono morti per le ferite riportate, mentre non ci sono informazioni sullo stato di salute e su dove siano detenuti Lobsang Kelsang , Lobsang Kunchok , Kelsang Wangchuk e Norbu Damdul , 79 anni in quattro, che sono stati portati via dalla polizia mentre bruciavano.

Il 19 ottobre un gruppo di 35 parlamentari dell’Amministrazione tibetana in esilio ha iniziato 24 ore di digiuno per protesta a Delhi. Il Dalai Lama a Dharamsala, la sede del governo tibetano in India, si è unito al digiuno e alla giornata di preghiera per la monaca. Diplomatica ma decisa la dichiarazione di Lobsang Sangay, capo del governo tibetano, che invoca l’intervento diplomatico delle potenze straniere. “Facciamo appello alle Nazioni Unite, ai pesi amanti della libertà e a tutte le genti del mondo perché mostrino sostegno e solidarietà con il popolo tibetano in questa fase critica” ha detto Sangay. “Data la legge marziale non dichiarata in Tibet e i crescenti casi di autoimmolazione, la comunità internazionale deve fare pressione sul governo della Repubblica popolare cinese perché restauri al libertà e risolva il conflitto con i tibetani attraverso il dialogo […]. Chiediamo anche la comunità internazionale e i media di mandare delegazioni per rendersi conto sul posto della reale situazione in Tibet”.

Più radicale la posizione di una parte della società civile tibetana. Lo scrittore Jamyang Norbu, uno degli intellettuali della diaspora più noti che vive negli Stati Uniti, si chiede se non sia il caso che la direzione della lotta passi nelle mani della resistenza interna. Tramite il suo blog sta organizzando una grande manifestazione internazionale per il 10 marzo 2012, giorno del 53esimo anniversario della rivolta di Lhasa, e chiede che tutti si uniscano alla dimostrazione iniziata in Svizzera, che ospita la più grande comunità tibetana in esilio nei paesi occidentali: posare per strada un mattone per ogni tibetano morto per sensibilizzare l’opinione pubblica.

In risposta ai tragici episodi di questi ultimi tre giorni, la Cina ha predisposto l’invio di 20.000 rappresentanti cinesi nei villaggi tibetani per un anno per “scolpire di nuovo la mente dei tibetani”, cioè per attuare l’ennesimo programma di rieducazione forzata. Sophie Richardson, direttore di Human Rights Watch, la scorsa settimana ha dichiarato che “le misure di sicurezza intese a ridurre la libertà di espressione, associazione e credo religioso nei monasteri in Tibet non sono legali. Ancora peggio, rischiano di esacerbare le tensioni” e ha chiesto la fine immediata della repressione. Human Rights Watch ha documentato l’aumento delle spese per la “pubblica sicurezza” nella regione sede dei disordini sin dal 2002.

Ecco il video della città occupata dlla polizia paramilitare cinese

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