Un momento del rilascio del caporale israeliano

Le fasi dello scambio dei prigionieri erano state studiate nei minimi dettagli. Troppo delicato, il passaggio di Gilad Shalit dall’ala militare di Hamas agli egiziani. Altrettanto delicata la liberazione dei 477 detenuti palestinesi della prima tranche dell’accordo tra Israele e Hamas. I due protagonisti dell’intesa, insomma, non si fidano nullo dell’altro, e hanno voluto tutelarsi sino alla fine, attraverso i particolari che  hanno riguardato anche i tempi dei vari passaggi.

Alle undici, si era detto nei giorni precedenti, Gilad Shalid sarebbe stato consegnato nelle mani dei militari israeliani. Così è stato, praticamente spaccando il minuto. Un fuori programma, però, c’è stato. E non ha fatto molto piacere agli israeliani, che si sono immediatamente mostrati risentiti per un dettaglio che non avevano calcolato. Un’intervista a Gilad Shalit, non fatta da una tv o una testata israeliana, bensì da una egiziana.

Un vero e proprio blitz, in sostanza. Appena Shalit è stato consegnato dagli uomini in armi di Hamas ai mediatori egiziani, la tv egiziana – attraverso una giornalista – lo ha intervistato. Le immagini di un giovane uomo di 25 anni pallido, smagrito ed emozionato hanno fatto non solo il giro del mondo. Le ha viste tutta Israele. Ben prima di vedere le foto ufficiali che sono state poi distribuite: il neopromosso sergente Shalit in uniforme che saluta il suo primo ministro, e soprattutto Shalit che sprofonda nelle braccia forti e affettuose di suo padre Noam, il vero eroe di tutta questa lunga storia.

Non è stata un’intervista qualsiasi, quella di Gilad Shalit ai microfoni e alle telecamere della tv egiziana. Perché la questione dei detenuti è divenuta singolarmente centrale, anche se solo nei prossimi giorni, settimane e mesi si capirà quanto Shalit fosse realmente convinto di quello che stava dicendo, in un momento di forte emozione. Ancora fuori da Israele. Il giovane soldato, detenuto per quasi duemila giorni dentro la Striscia di Gaza, ha detto che sarebbe stato felice se i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane – che secondo gli ultimi numeri dovrebbero essere circa cinquemila – fossero liberati. “Sarei molto contento se fossero tutti liberati, così da poter tornare dalle loro famiglie e nella loro terra”. E poi: “Spero che questo accordo condurrà alla pace tra palestinesi e israeliani, e che farà da sostegno alla cooperazione tra le due parti”.

Un’intervista così non era stata messa in programma. Così come non era stato messo in programma, più a nord, alla Muqata di Ramallah, una dimostrazione così evidente di unità, tra Fatah e Hamas. Magari solo mediatica, ma comunque importante. È stato di nuovo Mahmoud Abbas a diventare protagonista della scena, di fronte a migliaia di palestinesi riuniti davanti al mausoleo che conserva la tomba di Yasser Arafat. Non tanto e non solo per le parole che ha pronunciato, quanto per aver scelto di avere accanto a sé – sul palco – tre tra i leader più rappresentativi di Hamas in Cisgiordania. Tra i pochi, peraltro, che non si trovano oggi nelle carceri israeliane. Tre leader rappresentativi delle tre diverse aree della Cisgiordania, lo sheykh Hassan Youssef per Ramallah, Aziz Dweik, ex speaker del parlamento palestinese eletto nel 2006, per la meridionale Hebron. E infine Nasser el Din al Shaer, una delle figure più note di Nablus, considerato un uomo di ponte, che non nasconde le sue simpatie per il modello di Recep Tayyep Erdogan. Unità sul palco, dunque, e – da parte di Abbas – il riconoscimento ai prigionieri palestinesi di un ruolo fondamentale nella riconciliazione, simboleggiato dal Documento dei Prigionieri della primavera del 2006 firmato da tutte le fazioni.

L’accordo più importante e singolare mai raggiunto nella storia ultraventennale dello scontro tra Israele e Hamas, insomma, nasconde tra le maglie di una precisa macchina logistica e organizzativa alcuni dettagli politici che solo col tempo si chiariranno. Una cosa è già evidente: la questione dei detenuti palestinesi, rimasta per anni completamente in ombra, è arrivata sugli schermi della tv. Perché quelli liberati oggi avevano sulle spalle ergastoli e pene detentive durissime, comminate per accuse di terrorismo. Così non è, però, per tutti i detenuti, persino per la stragrande maggioranza di loro, che lo stesso personale carcerario definisce “attivisti”. Per i palestinesi sono prigionieri politici. Per gli israeliani, detenuti di sicurezza. Qualunque sia la formula usata, sono ornai un punto all’ordine del giorno, nel confronto tra israeliani e palestinesi.

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