E, alla fine, scoppiò “la guerra della firma fantasma” e l’ennesimo paradosso del ma-neanche bersaniano. Il segretario del Pd ha firmato o non ha firmato i quesiti contro la legge dei nominati?
Ieri, a piazza Navona, Fiorella Mannoia diceva che l’Italia è il paese del reverse, in cui tutto funziona al contrario, in cui gli inquisiti mettono sotto accusa gli onesti, e i colpevoli tartassano gli innocenti”. Ci deve essere qualcosa di vero, in questo paradosso, se ieri, per tutto il giorno, sulle agenzie si è combattuta una strana guerra di dichiarazioni, in cui un dirigente del Pd, Arturo Parisi, rimproverava al suo segretario di non aver firmato il referendum anti-porcellum, e l’interessato, Bersani, non rispondeva.

Ci deve essere qualcosa che va spiegato, a sinistra, se il responsabile organizzazione del Pd, Nico Stumpo, pochi giorni fa, aveva vantato come un successo le 200 mila firme raccolte ai banchetti nelle feste del suo partito, ma allo stesso tempo ricordava che il suo partito non intende far parte del comitato referendario. Insomma, si perpetua il paradosso dei referendum di giugno, a cui la base del Pd ha dato un contributo decisivo, ma in cui il gruppo dirigente fino alla settimana prima del voto non credeva. Certo, il primo fatto da raccontare è che le firme necessarie sono state raccolte, e che giustamente Parisi ieri, intervenendo dal palco di Sel, era orgoglioso di questo successo.

Ma resta il problema politico. La polemica, due giorni fa, era stata accesa proprio da una frase di Bersani: ‘”Ho avuto molti ringraziamenti prima dell’estate quando sono stati messi i banchetti – aveva detto il segretario – mi aspetterei che ora che abbiamo raccolto centinaia di migliaia di firme ci fossero uguali ringraziamenti. Sono stupefatto”. Bersani era stupito, perché nello stesso giorno, gli ulivisti del Pd, sparavano bordate contro di lui. Come quella di Mario Barbi, che a commento della dichiarazione a caldo di Bersani (“Non abbiamo messo il cappello, abbiamo messo i banchetti”) aveva risposto: “Sarebbe bello ed elegante se Bersani lasciasse il cappello sotto i banchetti anzichè metterlo sopra”. Poi erano arrivati gli strali dei “rottamatori” di Prossima Italia, che avevano aperto una pagina Facebook dal titolo “Ma Bersani ha firmato?”. E il segretario si era arrabbiato: “Non vedo ragione di polemiche”, aveva replicato in serata, dal seminario organizzato da Rosy Bindi: “Non avevamo promosso neanche gli altri 4 referendum – diceva – ma avevamo contribuito a raccogliere le firme, sostenuto la battaglia e l’avevamo portata alla vittoria“.

Vendola ieri da piazza Navona diceva unitario: “C’erano posizioni diverse, ma abbiamo fatto un miracolo: ora restituiamo il parlamento agli elettori”. E Di Pietro con affettuoso sarcasmo: “Io mi sono fatto l’estate sui banchetti… Ma sono contento che Bersani ci sia”. Però il portavoce di Parisi, Andrea Armaro, prendeva cappello cesellando notarella caustica sulle posizioni del segretario e sul giallo della sua firma: “Se la distanza dal referendum era un errore comprensibile e perfino rispettabile, come gli abbiamo detto, riconoscendo la sua fatica nel portare a sintesi e anche nascondere il profondo conflitto interno del Pd – spiegava ieri Armaro – non lo è la vicinanza di oggi. Se la freddezza di ieri era un errore comprensibile, l’eccessivo calore di oggi è una falsità inaccettabile”. E poi c’era quella stilettata che lo stesso Parisi aveva consegnato ad una intervista di Fabio Martini su La Stampa: “Perché Carlo Vizzini del Pdl ha firmato e Bersani e D’Alema no? La verità è che il vertice del Pd non è stato nè alla testa nè alla coda di questo movimento. All’inizio Bersani aveva elaborato una teoria per bloccare il referendum”. Armaro ci metteva il carico: “Bersani sostiene di aver firmato ed è un falso. Vi pare che nessuno se ne sia accorto? Come mai non un fotografo lo abbia immortalato?”.

In realtà, se si vuole capire il senso politico della disputa occorre un passo indietro. In principio, prima dell’estate, esistevano due quesiti. Uno proposto dal senatore Stefano Passigli sostenuto dall’ala dalemiana del Pd, Rifondazione (e, si diceva, dalla Cgil di Susanna Camusso) proponeva l’abrogazione del porcellum suggerendo la restaurazione del sistema proporzionale di coalizione. L’altro, quello di Parisi. Il primo sembra avere più appoggi politici e più chances, ma a Parisi riesce un piccolo capolavoro: convincere Antonio Di Pietro e Vendola che si deve puntare al cosiddetto Mattarellum (con collegi uninomiali e recupero proporzionale e vincolo di coalizione). Con questa mossa il referendum prende quota (Sel e Idv garantiscono da sole 300 mila firme in piena estate), ma il Pd si spacca. Scriveva ieri Chiara Geloni, direttrice di Youdem bersaniana doc: “Sono orgoliosa di non aver firmato”. Il motivo è anche politico: i dalemiani temono che il referendum Parisi produca un sistema troppo bipolare, allontanando l’Udc. La grana arriva nella Direzione del Pd del 19 luglio. Il partito si esprime unanimemente contro il referendum e Bersani dice con nettezza: “Il Pd non fa referendum lavora per un legge in parlamento”. E’ il gelo. Persino Veltroni “congela” la sua firma. Parisi parte lo stesso, e tenta una impresa impossibile. A fino agosto arriva la firma pesantissima di Romano Prodi. Veltroni torna in campo. Mezzo Pd si mobilita, i militanti affollano i banchetti. Bersani sente il vento e cambia marcia. Ma forse, in questo cortocircuito fra il ma-anche e il ma-neanche il Pd fatica sempre a scegliere perchè non trova mai una quadra fra le sue mille anime.

da Il Fatto Quotidiano del 2 ottobre 2011

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