Diecimila soldati a casa entro la fine del 2011. Un totale di 33mila militari in meno entro l’estate 2012. Sono le cifre del disimpegno americano dall’Afghanistan, offerte ieri sera da Barack Obama in diretta televisiva. Il discorso segna un momento storico: quello del riconoscimento che l’Afghanistan è cambiato, dall’11 settembre 2011, e che gli Stati Uniti non possono più farsi carico della costruzione della democrazia nel mondo. “E’ il momento di rivolgere i nostri sforzi alla ricostruzione, qui a casa”, ha detto Obama.

Il discorso era attesissimo, forse uno dei più attesi dell’intero mandato del presidente. La sua elaborazione è stata preceduta da un intenso dibattito in seno all’amministrazione: il vicepresidente Joe Biden e gran parte della leadership democratica chiedevano un disimpegno veloce dall’Afghanistan; i militari Usa< guidati dal nuovo capo dell Cia, David Petareus, preferivano invece un ritiro più blando: 5mila soldati entro quest’anno, e altri 5mila entro il prossimo inverno.

Obama ha dato ragione al suo vice, e deciso tagli consistenti alla presenza militare americana (oggi intorno alle 100mila unità). La scelta si giustifica con le necessità interne – la campagna elettorale per le presidenziali 2012 è partita, e gli americani sono stanchi della guerra -, ma è anche il segno che la situazione sul campo è mutata: “Al Qaeda è sotto pressione come non mai”, ha detto Obama, e la sua leadership appare fiaccata dall’intensa campagna di bombardamenti. Dei 30 leader del gruppo, identificati dall’intelligence americana, 20 sono stati assassinati nell’ultimo anno e mezzo.

Il presidente ha però dovuto anche riconoscere i limiti dell’operazione, il suo scopo più ridotto, rispetto alle ambizioni di esportazione della democrazia delineate più volte dal suo predecessore George W. Bush. “Non cercheremo di fare dell’Afghanistan un posto perfetto – ha detto Obama -. Non controlleremo le sue strade e montagne indefinitamente. Questa è responsabilità del governo afgano”. Nelle parole del presidente è parso anche ritrovare un cambiamento di strategia più complessivo. I giorni della guerra totale contro il terrorismo sono finiti, ha spiegato, gli Stati Uniti procedono verso operazioni clandestine e mirate, come quella che ha portato all’eliminazione di Osama bin-Laden o le più recenti in Pakistan e Yemen. “Quando minacciati, dobbiamo rispondere con la forza – ha spiegato Obama -. Ma non abbiamo bisogno di schierare vasti eserciti all’estero”.

L’addio alla war on terror degli anni passati ha una ragione soprattutto economica. Gli Stati Uniti non possono più sostenere i costi di un’operazione bellica che prosciuga le risorse in patria e di cui non si intravvede la fine. In dieci anni, la guerra in Afghanistan è costata mille miliardi di dollari; 120 miliardi solo quest’anno. Si tratta di una cifra enorme, che gli Stati Uniti non possono più permettersi di pagare, soprattutto in tempi di crisi economica. Su questo sembrano d’accordo quasi tutti: non solo i democratici, ma anche molti repubblicani, come gli stessi candidati alla presidenza Mitt Romney e Jon M. Huntsman, che hanno più volte chiesto di accelerare i tempi del ritiro.

Sono invece proprio i vertici militari a uscire sconfitti dalla decisione di Obama. Petraeus e i generali del Pentagono avevano chiesto più volte di non tagliare la forza militare in Afghanistan. E’ vero che ci sono stati progressi, è stato il loro ragionamento, soprattutto nella regione dello Helmand, che le attività commerciali sono ripartite e che la situazione dell’ordine pubblico appare meno precaria. Ma le forze afgane non sono ancora in grado di garantire la sicurezza, e il progettato trasferimento di soldati dal sud all’est del Paese richiedeva un esercito nel pieno delle sue possibilità.

Obama non li ha ascoltati, privilegiando le necessità interne di un Paese, gli Stati Uniti, che fatica a uscire dalla crisi. “L’onda della guerra sta retrocedendo”, ha detto il presidente Usa. E così pure, sembra, la possibilità che Washington continui come un tempo nella sua azione di guardiano del mondo.

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