Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, keynesiano convinto, si pone una domanda nell’articolo “Falling Demand for Brains?”. Si chiede se le innovazioni dell’information tecnology non siano causa dell’impoverimento dei ceti medi intellettuali e della loro marginalità sociale nel prossimo futuro.

L’indagine della rivista inglese Work & Stress “Mental health, job satisfaction and occupational stress among UK teachers”, firmata dai ricercatori Cheryl Jtravers e Cary L. Cooper, sulla salute mentale e la soddisfazione sul lavoro degli insegnanti del Regno Unito, ha evidenziato che i docenti esprimono un livello di soddisfazione più basso rispetto ad altri gruppi professionali di elevato livello, a causa delle crescenti difficoltà dell’università e della scuola.

I problemi dunque non mancano né qui né dall’altra parte dell’oceano. La crisi sta producendo incertezza nel mondo del lavoro intellettuale, un tempo al vertice della piramide sociale. Ogni Paese, evidentemente, risponde alle difficoltà con politiche di sostegno e riforme degli ordinamenti per preservare la qualità delle proprie istituzioni scolastiche ed universitarie.

In Italia invece le scelte compiute dal ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini e del governo Berlusconi sono state decisamente indirizzate a ridimensionare la scuola e l’università pubbliche e, conseguentemente, a comprimere il diritto allo studio: in primo luogo attraverso pesanti tagli del bilancio e degli stanziamenti necessari; in secondo luogo attraverso una riforma degli ordinamenti finalizzata sostanzialmente a rendere la gestione, in particolare degli atenei, sempre più centralizzata e dirigistica, ispirata a un privatismo strisciante, nelle mani di ristrette oligarchie dominate dai rettorati.

Questa tendenza si sta manifestando nella discussione in corso nelle commissioni per la revisione degli statuti delle università, statuti che devono definire i nuovi ordinamenti dei corsi di laurea e la nuova struttura dei consigli di facoltà e degli altri organi di direzione.

È interessante scoprire che le nostre più importanti università stanno gestendo con modalità e intendimenti molto diversi questa delicata materia. Ci sono atenei dove il lavoro delle commissioni è svolto con sedute pubbliche e con ampia informazione sugli atti, come ad esempio a Trieste, dove si è tenuta un’assemblea generale di tutte le componenti universitarie: docenti ordinari, associati, ricercatori, lavoratori precari, amministrativi e studenti che ha concordato le linee generali. Le università di Pisa e Torino, poi, hanno inserito la rappresentanza dei ricercatori precari, la categoria senza dubbio più colpita, nella commissione.

Così non è avvenuto a Bologna dove invece il Rettore Dionigi (peraltro di cultura progressista) viene criticato da diverse componenti dell’ateneo per la gestione, definita verticistica e poco trasparente del lavoro della commissione, dove sono presenti solo ordinari rigorosamente selezionati tra i più “ortodossi”. Al contrario c’è chi difende le scelte compiute perché scaturite dagli obblighi derivanti dall’applicazione della legge 240/2010, nei cui indirizzi applicativi si è scelto il criterio della competenza.
La materia è molto delicata e complessa. Una larga parte dei rappresentanti dei lavoratori della conoscenza considerano l’istituzione delle commissioni un cedimento agli obiettivi del governo e accusano di complicità con il ministro Gelmini i vertici delle università. In altre situazioni più dialettiche le componenti “deboli” ma organizzate considerano comunque questa discussione un’occasione per cercare di riformare gli atenei in senso più democratico e partecipativo.

Senza dimenticare che sull’università italiana incombe soprattutto la legge 133/2008 che, al punto 6 dell’articolo 16 intitolato “Facoltà di trasformazione in fondazioni delle università“, recita: “Contestualmente alla delibera di trasformazione vengono adottati lo statuto e i regolamenti di amministrazione e di contabilità delle fondazioni universitarie, i quali devono essere approvati con decreto del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze. Lo statuto può prevedere l’ingresso nella fondazione universitaria di nuovi soggetti, pubblici o privati”.

Su tutta questa discussione pesa in ogni caso il condizionamento dei tagli e la determinazione del governo di dare spazio solo all’istruzione privata, in un furore ideologico che ha fatto esultare i sostenitori della Gelmini indicandola come colei che era riuscita a far “finire il ’68”. Se non è ideologia questa?

Peraltro non si può sottacere che la situazione attuale ha visto proliferare in tutto il Paese, in modo incontrollabile, corsi di laurea e mini-università non ha favorito una crescita qualitativa dell’offerta formativa e che i metodi di reclutamento e selezione dei ricercatori-docenti, tante volte sono caratterizzati da nepotismo oligarchico, a danno delle figure più impegnate e promettenti.

Cosa saranno nel prossimo futuro le nostre scuole ed università: luoghi dell’istruzione ristretta ai ceti che possono permettersi di pagarsi gli studi contribuendo a ri-costruire una società divisa in caste, priva di mobilità sociale, mentre i nostri ricercatori saranno i “nomadi” d’Europa e America alla ricerca di un lavoro?

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