Gli animalisti che protestano per i piccioni impagliati di Cattelan alla Biennale di Venezia forse non hanno mai visto una bestia viva e la loro dimestichezza con madre natura si riduce a Farmville, dove la gallina fa l’uovo, la mucca fa il latte e il maiale fa il prosciutto.

Il rapporto dell’uomo con l’animale è molto più complicato di quello fra cacciatore e preda o fra assassino e vittima. Questo non è il pianeta delle scimmie. Ma se la cosmogonia dell’animally correct finisce per assurgere l’animale a individuo, è perché ha dei conti in sospeso con l’uomo.

Per l’animalista l’uomo è un impostore che ha manomesso l’equilibrio dell’universo. L’animale è invece il depositario dell’ordine naturale delle cose, il solo capace di ripristinarlo con la forza cieca dell’istinto. Si tratta in fondo di un’altra faccia del creazionismo, che per proteggere astrattamente l’animale esalta l’animalità dell’uomo.

Ridotto a bestia con coscienza, l’uomo adamitico del nuovo paradiso animale può solo sottomettersi a un ordine intoccabile. Mio nonno, che gli animali li allevava per mangiarli, mi ha insegnato ad ucciderli. Nei suoi gesti duri c’era rispetto per l’animale, costretto a morire e c’era pietà per l’uomo, costretto a non sapere.

Quando si sviscera un coniglio, molto più che quando si agita uno striscione, si percepisce il mistero della vita. Nel bestiario da cartone animato degli animalisti presto le zanzare tigre potranno rivolgersi a un tribunale penale internazionale per crimini contro l’insetticità e ci sarà chi adotta una colonia di Escherichia coli. A distanza però.

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