Tutti a sparare contro Di Maio. Il miglior modo per sostenerlo

1 Febbraio 2018

“È possibile che i continui attacchi di Berlusconi finiscano per favorire i Cinque Stelle che salgono nei sondaggi?”, ha chiesto martedì sera Lilli Gruber ad Alessandro Sallusti. “Sì, è possibile”, ha ammesso il direttore del Giornale berlusconiano, che a una domanda giusta ha saputo dare la risposta giusta. Più tardi, da Floris, Luigi Di Maio ha replicato in modo ragionevole a un’osservazione sbagliata dell’Economist che citava come aspetto poco commendevole nella biografia del capo politico del M5S l’esperienza di steward allo stadio San Paolo di Napoli, in giovanissima età.

Infatti, Di Maio ha avuto buon gioco a confermare con orgoglio un’esperienza che lo rende più simile ai tanti ragazzi precari che vivono di piccoli lavori precari piuttosto che ai tanti figli ignoti di noti papà che si fanno eleggere grazie alle clientele dinastiche. Si possono avere molti buoni motivi per non votare Cinque Stelle ma sorprende come nei pubblici dibattiti politici e giornalisti avversi (cioè la quasi totalità) cercando di metterli in cattiva luce finiscano per renderli simpatici e in qualche modo vittime del “sistema”.

È accaduto già con Silvio Berlusconi quando, dopo anni di polemica giustamente aspra sul conflitto d’interessi o sulle leggi vergogna o sulle nipotine di Mubarak, a lungo andare (e in assenza di alternative credibili) nella pubblica opinione cominciò a farsi largo l’idea che contro l’ex Cavaliere ci fossero forme fastidiose di accanimento, che infatti gli permisero di farsi passare per vittima. Al movimento di Grillo accade qualcosa di simile.

Prendiamo la giunta Raggi a Roma martellata quotidianamente da accuse di inesperienza e incompetenza, certamente motivate dal degrado dei servizi pubblici cittadini, dalla girandola di assessori e da qualche disavventura giudiziaria (il caso Marra). Poi però arriva Spelacchio, il tristanzuolo abete di piazza Venezia più adatto alla Quaresima che al Natale trasformato dal fuoco concentrico di giornali e tv in uno scandalo mostruoso. È stato così che per la legge non scritta del quando è troppo è troppo, ecco che Spelacchio è diventato il simbolo di una simpatica sfigataggine, creando identità e condivisione, popolarità. Ora, può essere che grazie a Beppe Grillo, nel 2013, Di Maio (con una moltitudine di suoi simili, spesso senza arte né parte) si sia ritrovato in tasca il biglietto vincente della lotteria di Montecitorio.

Oggi però attaccarne continuamente il curriculum perché non all’altezza di un candidato premier oltreché un’arma spuntata sta diventando un boomerang. Primo, perché chi vota Cinque Stelle non lo fa certo dopo aver consultato la Guida Monaci. Secondo, perché dopo avere esercitato per un quinquennio la funzione di vicepresidente della Camera nel frattempo qualcosa il ragazzo di Pomigliano d’Arco avrà pure imparato sui meccanismi legislativi e istituzionali. Terzo, perché a Matteo Renzi quando fu chiamato a Palazzo Chigi nessuno chiese la laurea alla Sorbona. Colpisce viceversa che assai concentrati a beccare i grillini sull’uso dei congiuntivi (non è difficile) i supercritici in servizio permanente effettivo raramente sanno contestare efficacemente, numeri alla mano, la genericità di un programma che annuncia miracoli di ogni sorta (dalla eliminazione delle liste d’attesa negli ospedali alla fine del precariato) senza dimostrare come o arrampicandosi sugli specchi. L’altra sera, a Dimartedì, in palese difficoltà nello spiegare dove diavolo si troveranno i soldi per dare copertura a sciocchezzuole come il reddito di cittadinanza, la riduzione delle aliquote Irpef e l’abolizione della Fornero siamo convinti che Di Maio si sarebbe volentieri rifugiato in un congiuntivo sbagliato.

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