News e propaganda

Russia, la guerra fredda del giornalismo. “I cronisti di Sputnik sono i nostri soldati!”

12 Novembre 2017

“I nostri soldati sono pronti a tutto, con il loro equipaggiamento possono affrontare ogni situazione, io li chiamo così i nostri giornalisti: soldati”. Irina Kedrovskaya si occupa di progetti web da un decennio e il suo successo maggiore è Sputnik: “In tre anni siamo diventati uno dei siti di informazione più importanti, sui social network raggiungiamo oltre 2 milioni di persone ogni giorno”.

Basta un tour nella redazione centrale di Sputnik, a Mosca, per capire le ambizioni: centinaia di giornalisti lavorano in silenzio assoluto sui loro computer, maxi-schermi a parte proiettano le varie home page di Sputnik e Bbc, molti editor hanno davanti un doppio schermo, su uno ci sono testi in russo, su altri in arabo, perché è in Medio Oriente che si combatte una delle battaglie decisive sull’opinione pubblica, la guerra in Siria si vince o si perde più sui media che sul campo, visto che quasi nessuno è in grado di verificare cosa accade davvero. Dal soffitto pende un cilindro su cui scorrono le news a rullo. Anche se il palazzo è sede dell’agenzia governativa Rossotrudnichestvo (al piano terra si tengono conferenze stampa dei ministri), l’atmosfera è quella di una vera agenzia stampa globale. Quando arriva una breaking news, per esempio un attentato, i giornalisti sanno perfettamente cosa fare: lanciano la notizia flash, poi si attivano i protocolli per preparare infografiche e approfondimenti, i cronisti sanno come muoversi, da Mosca gli editor coordinano il lavoro in 80 città nel mondo, gli algoritmi adattano le diverse home page in inglese, in russo e in tutte lingue in cui i contenuti vengono diffusi. A Sputnik non si considerano concorrenti di Tass o Interfax, due storiche e un po’ polverose agenzie russe, bensì di Reuters o Bloomberg.

La “macchina della propaganda”

Assieme al gruppo televisivo RT, già Russia Today, Sputnik è il principale strumento della “macchina della propaganda del presidente Vladimir Putin”, secondo un report della Cia americana datato 6 gennaio 2017. Il sito e la tv, scrive la Cia, “ha contribuito a influenzare la campagna elettorale (del 2016, ndr) come piattaforma per i messaggi del Cremlino al pubblico russo e internazionale”. A Sputnik e al Cremlino sono consapevoli di questa fama, ma la nuova Guerra fredda, come quella vecchia, si combatte anche sul piano psicologico. E la Russia considera un diritto contrattaccare. Irina Kedrovskaya è uno dei relatori alla “Scuola Sputnik per giovani giornalisti”, programma organizzato dall’agenzia governativa Rossotrudnichestvo per rappresentanti dei media, cinque giorni a Mosca per “facilitare una percezione oggettiva dei cambiamenti economici, scientifici, culturali ed educativi che avvengono in Russia”.

Quaranta giornalisti, da Cuba all’Iran alla Serbia alla Slovacchia all’Italia, anche il Fatto Quotidiano ha potuto partecipare. I giornalisti dei Paesi più ostili a Vladimir Putin mancavano: nessun americano, finlandese, francese o tedesco.

Sputnik è il cuore di quella che Usa e Ue considerano la macchina della propaganda di Putin, capace addirittura di cambiare l’esito delle elezioni negli Stati Uniti, a favore di Donald Trump. Twitter ha annunciato di non accettare più inserzioni a pagamento da RT e da Sputnik, “vogliamo proteggere l’integrità dell’esperienza degli utenti”, ha spiegato l’azienda. “Non pensavo che Twitter fosse sotto il controllo dei Servizi segreti Usa, ma ora Twitter sembra ammetterlo”, ha risposto Margarita Simonyan, direttore di Rt e architetto di questa nuova era dei media governativi russi. Twitter donerà in beneficenza 1,9 milioni di dollari ricevuti da RT e Sputnik durante le elezioni del 2016.

Dimitri Peskov, il potente portavoce di Putin, ha spiegato a Jim Rutenberg del New York Times che non è la Russia ad aver scelto di combattere questa guerra a colpi di news, si è limitata al “contrattacco”: tutto comincia con le “rivoluzioni colorate” nei primi anni del potere putiniano a inizio anni Duemila. Georgia, e poi Ucraina, Kirghizistan: al Cremlino si convincono che l’Occidente usa organizzazioni non governative e media per sobillare le opinioni pubbliche nell’area di influenza russa e si prepara a fare lo stesso a Mosca. Tra le controffensive, nel 2005, Putin decide di finanziare il progetto di Russia Today, affidato a una giornalista 25enne, Margarita Simonyan. L’idea era di creare un network tv che trasmettesse ai russi all’estero un’immagine rassicurante del Paese, ma la Simonyan lo ribattezza Rt e lo trasforma nella risposta alla Cnn. Rt non parla di Russia, parla del mondo da una prospettiva russa. Nel 2014 la stessa operazione viene replicata sul web: la radio Voice of Russia e l’agenzia di stampa Ria diventano Sputnik (il satellite lanciato nel 1957 è l’ultimo trionfo tecnologico che la Russia può vantare).

Modello Al Jazeera

Il progetto nasce con una esplicita matrice governativa, da un decreto del Cremlino. “Quando qualcuno voleva scrivere di Russia, non poteva accedere direttamente a contenuti prodotti qui e doveva basarsi su media locali che li mediavano, con molte distorsioni, per questo è nato Sputnik – spiega Vasily Pushkov, responsabile dei progetti internazionali di Sputnik –. Il modello sono Al Jazeera del Qatar e l’agenzia cinese Xinhua, Sputnik deve essere un prodotto competitivo con le grandi agenzie di stampa internazionali”. Ma che credibilità può avere una testata che è espressione diretta del potere di Vladimir Putin? Vasily Pushkov si aspetta la domanda, anzi, si può dire che è proprio per dare la risposta che organizza la “Scuola per giovani giornalisti”. E la risposta è articolata: “Io sono nato nell’Unione sovietica, negli anni Ottanta, e voi in Occidente denunciavate un regime che bloccava la pluralità delle fonti di informazione, ci spiegavate l’importanza di ascoltare ogni punto di vista, io ora guardo Euronews ogni mattina, ma perché dovrebbe bastarmi?”. Tradotto: avete voluto la libertà di espressione? Ora dovete accettare che pure la Russia si esprima. Propaganda e indipendenza, poi, sono due concetti scivolosi: “Ne parliamo ancora come se fossimo nella Guerra fredda, ma davvero oggi qualcuno pensa che si possano manipolare le opinioni, quando perfino in Corea del Nord la gente si informa con i telefoni comprati al mercato nero? A tutti i giornalisti piace definirsi indipendenti, ma c’è sempre qualcuno che paga il loro stipendio e a nessuno piace spendere per leggere cose che non apprezza”.

Se Sputnik fosse soltanto un sito che racconta l’attualità con una prospettiva russa, nessuno lo noterebbe. Ma quello che scrive ha conseguenze politiche, tanto che il Congresso americano non accetta più gli accrediti dei suoi giornalisti, li tratta come rappresentanti di un governo estero invece che da cronisti. E il presidente francese Emmanuel Macron ha espulso il corrispondente di Sputnik dal team autorizzato a seguire l’Eliseo: durante tutta la campagna elettorale il sito russo pubblicava articoli come “Macron potrebbe essere un agente americano, lobbista degli interessi delle banche” (Sputnik vuole sempre mantenere una patina di oggettività: non si tratta di un editoriale ma di un’intervista a un oscuro deputato dei Republicains, Nicolas Dhuicq le cui parole il sito si limita a riportare). Decidere che posizione tenere sulle elezioni in Francia, o su quelle imminenti in Italia, sembra più una questione di politica estera che di linea editoriale. Anton Ansimov, giovane vicedirettore di Sputnik, rivendica: “Mai ricevuto una telefonata dal Cremlino per dirmi come coprire le elezioni in Francia”. Poi, forse con una punta di ironia, aggiunge: “Vorrei che fosse successo, così sarei stato sicuro di non sbagliare”.

Non si tratta tanto di inseguire le dichiarazioni di Putin, o di anticiparle. Sputnik ha un metodo, prima che un contenuto: seminare il germe del dubbio sul Web e sui social, mettere in discussione la versione dei media tradizionali, cioè occidentali. Un esempio: il dittatore Bashar al Assad è sostenuto dalla Russia, ma è anche considerato il principale responsabile della morte di oltre 400.000 siriani dal 2011 a oggi. La principale fonte dei dati sulle vittime è l’Osservatorio siriano per i diritti umani. “Sapete quanta gente ci lavora?”, chiede Oleg Dimitriev, consulente per la formazione di Spuntik, alla platea di 40 giornalisti internazionali. Risposta: “Una sola persona e da Londra”. Quindi non ha nessuna credibilità, come ha denunciato Rt nel 2015. Ma nel 2013, il New York Times aveva dato anche alcuni dettagli che i media russi omettono: a Londra, l’Osservatorio è gestito soltanto da Osama Suleiman, che però si avvale di uno staff di quattro persone in Siria e 230 attivisti sul campo. Chi avrà ragione? Rt o il New York Times? Già farsi la domanda indica che qualche giorno nella “scuola” di Sputnik inizia a produrre i suoi effetti.

A ciascuno le sue “fake news”

Oleg Shchedrov, già giornalista e poi direttore della russa Interfax, un ventennio alla Reuters è il profeta supremo del dubbio: divide noi “giovani giornalisti” in quattro gruppi e assegna due temi: il veto della Russia nel Consiglio di sicurezza Onu sulla risoluzione anti-Assad sulle armi chimiche e il pericolo nucleare della Corea del Nord. Due gruppi devono analizzare la copertura dei media occidentali, altri due dei media russi in inglese, per identificare i pregiudizi, le “parole emozionali” che vogliono provocare reazioni nel lettore, il rispetto della regola che prevede di sentire sempre la controparte (cioè i russi). Non è difficile intuire lo scopo dell’esercizio. “Se vuoi uccidere una storia, rendila molto oggettiva”, è una delle massime che Shchedrov dispensa per spiegare la linea della Russia sulla Corea del Nord (critica ma senza arrivare a trovarsi a fianco degli Usa contro Kim Jong-un).

I “giovani giornalisti” ascoltano e prendono appunti: molti arrivano da agenzie di stampa o televisioni pubbliche di Paesi con una democrazia dalla qualità discutibile. Sono abituati a questi paletti. Per alcuni partecipare alla scuola di Sputnik è un problema: il gruppo di giornaliste bulgare viene criticato in patria, un giornalista di un Paese dell’Europa ex sovietica (evitiamo il nome) evita di fare domande così non deve presentarsi e citare la testata per cui lavora. Teme di ritrovarsi sulla lista nera dei giornalisti filo-putiniani e di rovinarsi la carriera. Perché Sputnik è ancora piccolo e marginale in Paesi come l’Italia – ci scrivono dal veterano Giulietto Chiesa a Marco Fontana, che è anche responsabile dell’ufficio stampa dell’Ordine dei pediatri – in zone più sensibili per gli interessi russi Sputnik è una voce influente: in Libano viene rilanciato da una tv, in Slovacchia l’agenzia di stampa pubblica Tsar ha dovuto cancellare il suo contratto con Sputnik dopo un solo mese per le proteste. E così via.

Ogni settimana, la Commissione europea produce una “Rassegna di disinformazione”, a cura di una specifica task force, che censisce i casi di fake news o manipolazioni dei media russi o filo-russi, Sputnik è spesso il bersaglio delle accuse. Ma il ministero degli Esteri guidato da Sergej Lavrov reagisce di conseguenza. “Abbiamo lanciato anche noi un progetto di lotta alle fake news, analizziamo gli articoli che parlano di Russia sui principali media e poi denunciamo sul sito del ministero quelli che contengono bugie”, spiega al Fatto Sergey Nalobin, il funzionario a capo delle strategie digitali del ministero degli Esteri. È uno degli ultimi incontri nel seminario di Sputnik e sembra confermare quanto negato a più riprese nei giorni precedenti, cioè che i nuovi e aggressivi media internazionali basati in Russia e voluti dal Cremlino siano strumenti della politica estera di Putin. “Noi vogliamo soltanto offrire risposte a chi viene privato delle informazioni corrette da parte di giornalisti poco professionali che neppure sentono il parere dell’ambasciata o del ministero quando scrivono di Russia”, spiega Sergey Nalobin che ama citare Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ridono di te, poi combattono, poi vinci”. Al ministero sembrano pensare di essere nella penultima fase: nessuno ride più ma si combatte. Tra le varie attività, il team di 85 persone che si occupa di informazione duella anche via Twitter e Facebook con le fake news anti-russe: “Cerchiamo di rispondere in tempo reale, valutiamo se l’autore dell’affermazione è un troll o un esperto, un politico o un giornalista e se l’interlocutore è rilevante replichiamo subito”.

L’unica Russia da mostrare all’estero

Oltre ai seminari, la “scuola per giovani giornalisti” prevede anche una breve passeggiata sulla Piazza Rossa e una singolare scelta turistica per l’unico momento dedicato alle visite di monumenti: il Cremlino Izmailovo, una specie di ricostruzione della Russia in miniatura, molto lontano dal centro dove guide autoctone in abiti finto-tradizionali di poliestere illustrano come si faceva il pane nelle campagne, la storia delle Matrioske e l’arte ceramica. Tutto finto, incluse le chiese ortodosse di legno senza chiodi, questa imitazione risale al 2001, al debutto dell’era Putin. Chissà, forse è un modo di trasmettere ai giornalisti dei Paesi considerati amici l’immagine di una Russia che rimane connessa alle sue radici ma si è liberata di tutta la sua storia recente, dagli zar al comunismo al caos degli anni Novanta.

C’è il finto Cremlino e poi c’è quello vero, da dove Vladimir Putin governa su una Mosca immacolata e ordinatissima pronta ad accogliere trionfalmente i Mondiali di calcio del 2018. E questa è la sola Russia che Sputnik e gli altri media di Mosca vogliono che venga raccontata.

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