Trattativa Stato-mafia

Trattativa Stato-mafia: il prof dei misteri, il boss e le chiamate dimenticate dai pm

15 Gennaio 2019

Ci sono giorni in cui la giustizia è cieca e si ferma sulla soglia della verità. È accaduto nel 1994 quando i carabinieri e i pm di Palermo hanno avuto tra le mani le telefonate di un professore misterioso, Pietro Di Miceli, morto pochi anni fa. Il professore parlava con tante persone importanti. Per esempio, il 7 dicembre 1994, si felicita con una donna non identificata che lo chiama per dirgli di essere appena stata nominata segretaria di un ministro. Tutti i giornali scrivevano in quel momento dei suoi rapporti con senatori e ministri e delle indagini per mafia che lo riguardavano. Poi sarà assolto. Ma non è questo il punto. Il punto è: perché i pm e i carabinieri si disinteressarono di quelle chiamate?

Eppure Di Miceli non usava la sua utenza ma quella di Cesare Lupo, il braccio destro di Giuseppe Graviano. Lupo oggi è al 41-bis, condannato per mafia mentre il suo capomafia è stato condannato anche per le stragi di Capaci e via D’Amelio e per quelle del 1993 a Milano e Firenze oltreché per le bombe di Roma. Nonostante in quel momento la Procura di Palermo indagasse già per mafia e per una fuga di notizie sul professore Di Miceli, quelle telefonate finirono in un armadio.

Questa storia sarebbe rimasta sepolta per sempre se la trasmissione Sekret della piattaforma Loft, con l’aiuto dell’avvocato Fabio Repici, non l’avesse tirata fuori. Il difensore di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dopo aver letto le trascrizioni delle telefonate di Di Miceli, chiede l’apertura di un’indagine: “Solo oggi scopriamo un fatto così sconvolgente. Paolo Borsellino si era interessato al ‘Corvo due’, l’esposto anonimo che citava Di Miceli poco prima di morire per mano del gruppo guidato da Giuseppe Graviano. Ci fu un sonno della ragione da parte degli investigatori. Dopo la sentenza Trattativa e dopo quella del Borsellino quater, è doveroso per i magistrati fare luce su quello che è accaduto allora con queste intercettazioni”. CTAairport. 

La storia si può vedere su www.iloft.it: la serie sulla Trattativa Stato-mafia dedica l’ottava puntata dello speciale I Gravianos proprio alle telefonate ‘dimenticate’ del professor Pietro Di Miceli.

La storia risale a 24 anni fa. I carabinieri del Nucleo Operativo di Palermo, guidati allora da Davide Bossone, intercettano alla fine del 1994, su delega dei pm Lorenzo Matassa e Luigi Patronaggio, il braccio destro di Giuseppe Graviano. Lupo, quando uscì di galera dieci anni fa, divenne il reggente del mandamento. Oggi è recluso in regime di isolamento e si è laureato con 104 e tesi sull’estorsione mafiosa. Allora era l’alter ego di Graviano. Per il pentito Tullio Cannella, diceva di conoscere persino i rapporti presunti di Graviano con Marcello Dell’Utri.

Giuseppe e Filippo Graviano sono stati arrestati a Milano il 26 gennaio 1994 con un loro favoreggiatore che era lì per portare il figlio calciatore (già raccomandato da Dell’Utri nel ’92) al Milan per un provino. Il costruttore finisce così intercettato con la rete dei favoreggiatori e l’ascolto del cellulare della Immobiliare Building srl parte il primo novembre 1994. Presto i carabinieri si accorgono che ascoltando il numero 0337/8906.., teoricamente in uso a Lupo Cesare, si sente parlare Pietro Di Miceli, commercialista, nato nel 1938, consulente della sezione fallimentare, con ufficio in via Roma a Palermo, nello stesso palazzo dove aveva sede il servizio segreto Sisde. “È solo una coincidenza”, diceva lui.

Di Miceli eseguiva per conto del Tribunale le perizie sui patrimoni dei boss. Divenne famoso nell’estate 1992 per l’anonimo cosiddetto del ‘Corvo bis’. In quell’esposto di otto pagine, recapitato a molti giornalisti e magistrati, era indicato come il protagonista della prima ‘Trattativa’ tra la politica e Cosa Nostra. Secondo il Corvo bis, Pietro Di Miceli aveva organizzato un incontro nella Chiesa di San Giuseppe Iato, tra l’allora ministro della Dc Calogero Mannino e il capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. L’incontro – sempre secondo l’anonimo – mirava a creare un nuovo ‘patto’ che sostituisse gli andreottiani e Lima con la sinistra Dc di cui Mannino era un esponente.

Al processo Trattativa il vecchio esposto è stato rievocato e Mannino ha avuto modo di ricordare che non ci furono riscontri a quelle affermazioni. Non solo: Mannino e Di Miceli vinsero anche le cause per diffamazione intentate contro chi aveva dato credito all’appunto. L’esposto viene rivendicato il 3 luglio 1992 con una telefonata all’Ansa della misteriosa sigla ‘Falange Armata’ con tanto di registrazione, che annuncia: “segnali forti, chiari, devastanti necessariamente si impongono”. Due settimane dopo, il 19 luglio 1992, salta in aria via D’Amelio. L’indagine sul Corvo bis era stata affidata proprio a Paolo Borsellino. Un collega raccontò al giudice che dietro l’anonimo poteva esserci il capitano del Ros dei carabinieri Giuseppe De Donno, che ha sempre negato. Borsellino chiese allora al tenente Carmelo Canale di fissare un incontro il 25 giugno 1992 nella caserma Carini con De Donno. Partecipò anche il colonnello Mario Mori. Seppure non riscontrato e diffamatorio, quindi, l’anonimo fu una delle ultime questioni seguite da Borsellino.

Il Corvo bis uscì presto dai radar del Ros. Di Miceli vi rimase. Nel 1993-94, a seguito anche delle dichiarazioni sul commercialista di alcuni collaboratori di giustizia, Di Miceli fu indagato per i suoi rapporti con la mafia sia a Palermo (pm Luigi Croce e Nino Napoli) sia a Caltanissetta (pm Fausto Cardella e Ilda Boccassini). Le indagini furono aperte sulle dichiarazioni dei pentiti e chiuse definitivamente su richiesta dei pm, Maurizio Della Lucia e Michele Prestipino, perché non si trovarono riscontri. L’inchiesta ripartì a Caltanissetta e fu chiusa con la sentenza del giudice Paolo Fiore nel 2006. I pentiti raccontarono i rapporti di Di Miceli con il boss della Noce, Raffaele Ganci, braccio destro di Totò Riina e un pranzo con Angelo Siino e Giovanni Brusca. Però non c’era prova che Di Miceli avesse aiutato Cosa Nostra. Il commercialista negava tutto. Anche i rapporti con i Ganci. Nella sentenza di assoluzione il giudice afferma di non credere sul punto alle parole di Di Miceli. Però ritiene che “non sia ravvisabile la condotta di partecipazione nell’organismo criminale che costituisce elemento costitutivo del delitto di associazione mafiosa”.

Nel 1993 e 1994 quindi Pietro Di Miceli era intercettato sulle utenze a lui intestate dal Ros su delega dei pm di Palermo e Caltanissetta. Di Miceli incontrava e sentiva personaggi come il ministro dell’Interno Nicola Mancino e – il 7 aprile dopo la vittoria di Berlusconi ma prima della sua nomina a ministro della Difesa – anche Cesare Previti. Quando la notizia dei contatti uscì sui giornali, a difendere Pietro Di Miceli intervennero personaggi al di sopra di ogni sospetto come il cognato di Giovanni Falcone: Alberto Cambiano, titolare dell’Italnautica. Intervenne per lui anche Pina Maesano, titolare della Sigma e vedova di Libero Grassi, l’imprenditore ucciso dalla mafia. Entrambi dissero ai giornali che il commercialista era consulente delle loro società: aveva incontrato Mancino su input di Pina Grassi e Previti su input di Cambiano, marito di Anna Falcone.

Nel dicembre del 1994, Di Miceli era quindi al centro di un caso enorme. Non solo, il suo nome divise anche la Procura di Palermo e il ministero della Giustizia del governo Berlusconi, retto da Alfredo Biondi. I pm di Palermo scoprirono un fax con una richiesta di raccomandazione a Di Miceli per far promuovere un ispettore inviato a Palermo per controllare il Tribunale.

Nel settembre del 1994, il ministero inviò un secondo ispettore a Palermo e questi si interessò delle intercettazioni su di Miceli e del fax a lui indirizzato, intercettato in precedenza dai pm. Nel dicembre del 1994 i giornali dedicavano quindi pagine intere all’inchiesta del Procuratore Gian Carlo Caselli e dell’aggiunto Luigi Croce per individuare la gola profonda. I giornali ipotizzavano una rete di protezione massonica ma Di Miceli negò tutto, compresa la sua appartenenza alla massoneria. Quando i carabinieri del Nucleo di Palermo intercettano il cellulare di Lupo e ascoltano Di Miceli, il commercialista è quindi al centro di uno scandalo politico-giudiziario. Inoltre le telefonate erano difficili da dimenticare. La segretaria di un ministro del governo Berlusconi chiama, sul numero di Lupo, il commercialista il 7 dicembre 1994 e gli dice: “Le fa piacere sapere che il ministro ha cambiato idea e mi ha nominato capo della segreteria? (…) quindi non mi troverà più lì a via Buoncompagni ma sarò direttamente dal ministro. Venerdì vado a prendere possesso”.

Dopo quella telefonata, il Capitano Bossone chiede al pm il 15 dicembre di estendere le intercettazioni in tutta Italia perché “Lupo è solito effettuare frequentemente trasferte fuori Palermo”. Patronaggio e il procuratore aggiunto Luigi Croce girano la richiesta al Gip Alfredo Montalto (poi presidente del processo Trattativa) che firma il 24 dicembre 1994. La telefonata con la segretaria ignota è allegata alla richiesta ma il nome dell’interlocutore non è “Lupo Cesare”, bensì “Noto soggetto”. Solo il 28 gennaio 1995 la telefonata sarà trascritta dai carabinieri Alberto Melis e Mario Tomasi e l’interlocutore sarà finalmente scritto: “Pietro Di Miceli”.

Abbiamo chiesto lumi a Bossone, Patronaggio e all’altro pm inizialmente delegato: Lorenzo Matassa. Tutti hanno detto di non ricordare. Il procuratore Gian Carlo Caselli è certo che nessuno gli fece menzione di questa vicenda. Però almeno Patronaggio qualcosa doveva sapere. Il 28 gennaio 1995 le telefonate sono trascritte dai carabinieri con il nome Di Miceli. Il 3 febbraio 1995 il capitano del Nucleo, Carmine Furioso, chiede a Patronaggio di chiudere le intercettazioni dopo l’arresto di Lupo perché “nell’occasione militari di questo Nucleo, provvedevano a porre sotto sequestro il telefono cellulare avente utenza 0337/8906… intestato all’Immobiliare Building”. Il 15 febbraio 1995 Patronaggio interroga Lupo in cella e gli chiede conto di quel telefonino. Lupo risponde di avere usato il numero 0337/8906… con tre apparecchi diversi. Poi aggiunge: “Il cellulare è stato usato esclusivamente da me o da membri della mia famiglia. Conosco il commercialista Pietro Miceli e non già tale Pietro Di Miceli. Il predetto Miceli Pietro è il commercialista della mia azienda sin dalla costituzione. Non ho mai prestato il telefono a Pietro Miceli e che io sappia non è coinvolto in inchieste sulla massoneria”. Su questa strana omonimia l’indagine sul cellulare si ferma. Eppure dalle telefonate è chiaro che l’interlocutore sia quel Pietro Di Miceli, non un tal Miceli.

Perché Luigi Patronaggio fece quelle domande sul telefonino prestato e su Di Miceli? “In quell’interrogatorio – spiega il procuratore di Agrigento – mi sono lanciato con il fiuto. Solo dopo ho capito che il gioco era grande. Se avessi capito, avrei subito riferito a Caselli. Non avevo la visione d’insieme e il coordinamento spettava a Luigi Croce”. L’ex aggiunto spiega: “Sono passati tanti anni, ma una cosa così importante me la ricorderei. Nessuno – spiega Croce – mi ha mai detto nulla di queste telefonate. Io sono in pensione ma se voi pubblicate questo articolo, la Procura di Palermo o la Commissione Antimafia potrebbero fare un’inchiesta per capire cosa è accaduto”.

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