Bruno Contrada, l’antipasto per il caso Dell’Utri

29 Dicembre 2017

In un film degli Anni 70 il commissario Giraldi (Thomas Milian) per convincere un amico gli urla: “Aò, quel che te sto a di’ è cassazione!” : un giudizio definitivo, sul quale non ci possono essere dubbi. Ma ciò che è evidente per tutti, a partire da “Er monnezza”, non vale se sono in gioco certi interessi.

Penso al caso Contrada: condannato in Cassazione a 10 anni, poi “beneficiato” dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) con una sorprendente sentenza. Ma il caso Contrada rischia di essere l’antipasto di un più lauto banchetto imbandito per Marcello Dell’Utri: condannato in Cassazione a 7 anni, ora beneficiario di uno scatenamento di forze che mirano a far valere pure per lui la sentenza Cedu. Le vicende dei due illustri imputati si comprendono meglio inquadrandole nella storia del nostro Paese, che è anche storia della “criminalità dei potenti”, categoria criminologica che comprende i reati propri del “potere” fra cui spiccano corruzione e mafia. Nella strategia della mafia (Cosa Nostra in particolare) sono essenziali le relazioni esterne con segmenti della politica, dell’economia e delle istituzioni. Con un susseguirsi di rapporti di alleanza, di coesistenza/compromesso o di conflitto. Uno dei fili conduttori della storia è il negazionismo di quelle relazioni. Il rapporto mafia-politica sarebbe privo di respiro nazionale, roba da folklore localistico. Con un sillogismo semplice: le indagini sono inventate da magistrati “creativi” o in malafede; quindi sono inquinate e vanno demolite.

Un tempo il negazionismo colpiva l’esistenza stessa della mafia. Gente riverita e ascoltata faceva a gara nel proclamarlo. Spicca il caso di Tito Parlatore, Pg della Cassazione. Avrebbe dovuto rappresentare l’accusa nell’omicidio di Salvatore Carnevale, uno dei 18 sindacalisti che insieme a 15 fra sindaci, segretari di Camere del lavoro e politici, furono assassinati dai mafiosi in combutta con agrari e banditi per fermare l’occupazione delle terre incolte. Ebbene, di fronte a questo disegno criminale, culminato nella strage di Portella della Ginestra (11 morti e 56 feriti), il Pg se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della Corte di cassazione”. Del resto, il negazionismo ebbe a lungo un autorevole avallo. Esiste come reato solo ciò che è scritto nel gran libro dei delitti e delle pene: ma nel codice penale la mafia compare soltanto nel 1982 con l’art. 416 bis, quando – colpendo Pio La Torre e quattro mesi dopo Dalla Chiesa – superò il livello di violenza (pur gravissima) fino ad allora di fatto tollerato.

Il negazionismo non ci mise molto a imboccare una nuova strada. Negare la mafia era ormai impossibile, meglio attaccare ciò di cui la mafia si nutre, vale a dire le relazioni esterne. Questa volta negando l’esistenza del concorso esterno. Un delitto che sarebbe stato creato apposta per Andreotti, Dell’Utri e altri imputati eccellenti da una magistratura incline alla persecuzione. Tesi grossolana e infondata, perché il concorso esterno nel nostro ordinamento esiste da sempre e per tutti i reati, in base all’art.110 c.p. Responsabile di furto è non solo il ladro ma anche il palo, colpevole di concorso esterno. E non si capisce come ciò che pacificamente vale per tutti i reati non debba valere anche per la mafia. Salvo concedere, in pratica, un trattamento privilegiato ai collusi (specie se eccellenti) e alla stessa criminalità.

Alla Cedu, forse, non si può chiedere di conoscere il quadro storico-politico ora delineato. Ma il bello è che sul piano tecnico essa si fonda (sentenza Contrada) proprio su una premessa corretta, quando afferma esplicitamente che gli articoli pertinenti al caso sono il 110 e il 416 bis. Ciò che – secondo logica – equivale ad ammettere che per la legge italiana il concorso esterno esiste dal 1930 (data di approvazione del codice) e che la sua applicabilità anche all’associazione mafiosa comincia nel 1982. Come si possa poi sostenere che il concorso esterno in associazione mafiosa sia di origine giurisprudenziale è per me un mistero. Non mi illudo di competere coi maghi del diritto, ma il buon senso mi dice che l’elaborazione giurisprudenziale presuppone una norma che già vieta e punisce l’infrazione. L’interpretazione, difatti, nella concezione comune, significa due cose: ricostruzione dei fatti sottoposti a giudizio e individuazione della norma applicabile. Se una norma esiste già, a crearla non sarà certo l’elaborazione interpretativa, compito della quale è solo applicare la norma adattandola al caso concreto. Vero è che alcune valenze creative dell’interpretazione sono inevitabili, essendo necessario scegliere tra diverse opzioni in base al testo della norma e al sistema in cui essa si inserisce. E scegliere significa privilegiare alcuni o altri elementi di valutazione. Ciò è evidente quando il legislatore affida al giudice la determinazione di concetti generici o mutevoli nel tempo (tipo buon costume, onore, ordine pubblico), ma è una costante di ogni attività interpretativa. Ravvisabile persino nell’omicidio: posto che l’art. 575 (omicidio doloso) parla di morte di un “uomo”, mentre l’art. 589 (omicidio colposo) parla di “persona”, c’è qualcuno disposto a sostenere che il reato di femminicidio è stato “creato” dall’interpretazione estensiva della parola uomo? Un altro esempio riguarda lo stupro di una ragazza coi jeans. Una sentenza della Cassazione ha stabilito che non è reato… perché i jeans non sono facili da togliere! Beh, non mi risulta che qualche imputato si sia difeso dicendo di aver scelto una ragazza con quei pantaloni in quanto la creazione giurisprudenziale del reato era ancora in corso. Paradossi, ma decisivi per capire che l’elaborazione giurisprudenziale è la fisiologia quotidiana del giudicare. La tesi che vorrebbe assegnarle anche l’origine di una infrazione ancora inesistente è tutt’altra musica.

Va detto, peraltro, che la Cedu rimarca come non sia stato “oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale”. Significa che i rappresentanti del governo italiano, pur opponendosi all’accoglimento del ricorso Contrada, sono incorsi in una “falsa partenza”, che ha facilitato (senza giustificarlo) lo sfondone della Cedu. Un ammonimento a tutti perché un simile errore (se involontario) non abbia più a ripetersi. Altrimenti sarebbe come assecondare la negazione della mafia nella versione “moderna” dell’attacco a quel suo elemento essenziale che è il concorso esterno. Se non si vuole investire la Corte costituzionale, già allo stato degli atti si può decidere senza dover necessariamente obbedire a una sentenza che – per quanto europea – appare inaccettabile mentre il nostro ordinamento costituzionale assoggetta il giudice soltanto alla legge. Lo ha fatto il 23 ottobre la Cassazione sull’istanza di liberazione anticipata di Dell’Utri stabilendo che “la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, bensì è conseguenza della generale funzione incriminatrice dell’articolo 110 c.p.”. Un matematico concluderebbe con la classica formula “c.v.d.”, ma qui la storia è ancora aperta. Per questo è necessario prestarvi ogni attenzione. La posta in gioco non è solo tecnica. È la qualità stessa della nostra democrazia che può appannarsi.

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