Il nucleare non è sostenibile: l’atomo costa sempre troppo
Mentre milioni di persone scendevano in strada per denunciare la complicità del governo italiano con Benjamin Netanyahu e i suoi sgherri, Giorgia Meloni e sodali hanno schiacciato ancora una volta la volontà popolare. Giovedì scorso, il Consiglio dei ministri ha infatti approvato la “Delega al governo in materia di energia nucleare sostenibile”: 4 articoli finalizzati a “raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050”, conseguendo “sicurezza e indipendenza energetica” e il “contenimento dei costi dei consumi energetici per i clienti finali domestici e non domestici”.
Il cortocircuito è assoluto, fin dal titolo: nucleare e sostenibile sono infatti due parole che non possono essere accostate, a partire dalla questione mai risolta delle scorie. Tant’è vero che l’Italia, dopo aver mandato le proprie in Germania – il nucleare lo abbiamo già avuto e abbiamo votato ben due volte per rifiutarlo – ha accettato di tombarle nei cadaveri delle centrali dismesse. Ma la logica e la trasparenza, in questa operazione, non c’entrano. E nemmeno la matematica: sarebbe bastato leggere i documenti prodotti dai centri studi mondiali e italiani, a partire da Confindustria e Bankitalia, per rinunciare all’operazione. Benché la legge delega, e il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, si riferiscano ampiamente a un “nuovo nucleare”, di nuovo non c’è nulla: la fusione è di là da venire, e il riferimento è ai piccoli reattori (Small modular reactors) che dovrebbero sostituire le mega centrali di una volta. Peccato che nell’ultimo decennio sia stata provata la fallacia dell’idea: basti dire che Oltralpe, il reattore di Flamanville è entrato in funzione nel 2024 con 12 anni di ritardo e spesa lievitata di sei volte rispetto al progetto originario. Proprio i costi, paradossalmente, certificano che l’atomo non è una buona soluzione: l’ultimo rapporto indipendente sull’industria del nucleare (The World Nuclear Industry Status Report 2025) segnala che il costo livellato per l’energia prodotta da fotovoltaico con grossi impianti è pari a un terzo di quello del nucleare, 4 centesimi di dollaro per KwH contro un minimo di 14 centesimi per l’atomo. Non per niente, l’industria è complessivamente in stallo: nel 2024 gli investimenti globali in solare ed eolico sono stati di 728 miliardi di dollari, 21 volte più di quelli nel nucleare. La capacità installata di fotovoltaico è cresciuta di 452 GW in un solo anno, quella dell’eolico di 113 GW, mentre il nucleare ha registrato un aumento di appena 5,4 GW. Un grosso affare, insomma, l’atomo non è. Lo certifica d’altronde Bankitalia, che nell’analisi intitolata L’atomo fuggente scrive che vista “la struttura del mercato e della bolletta elettrica, una reintroduzione del nucleare non avrebbe significativi impatti sul livello dei prezzi”. Conferma Confindustria, che da tempo chiede una strategia energetica che aiuti davvero la produzione: il nucleare non è competitivo rispetto alle rinnovabili, caratterizzate da un elevato processo d’innovazione che ne riduce i costi. La bocciatura è completa.
Niente di questo sembra però preoccupare il governo, che compila una delega da riempire con decreti legislativi di qui a un anno (peccato che il ministero di Pichetto Fratin, che ne è incaricato, debba ancora attivare l’Osservatorio sulla povertà energetica atteso dal 2022). Nel frattempo, qualche milione (7,5) è già stato destinato alla propaganda con la quale convincere gli italiani di qualcosa che hanno già rifiutato in due referendum. E per cui, si è fatto scappare proprio Pichetto Fratin, potrebbero dover pagare un contributo in bolletta: i costi per i reattori sono così alti che per due terzi se li caricano gli Stati, cioè i cittadini. I profitti, invece, sono come sempre privati. E forse è questo a spiegare l’operazione.
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