Il viaggio

Cisgiordania, con MSF tra Jenin e Nablus: 1 su 3 non ha diritto alla salute

Territori occupati palestinesi: l’ultima tappa - Come fossimo a Gaza. Dal 7.10 su 5.505 raid 538 sono gli attacchi contro i medici (23 morti), 374 le ambulanze distrutte. Eppure c’è chi resiste. Venerdì 13 dicembre alle ore 17 su ilfattoquotidiano.it la diretta con la Fondazione il Fatto Quotidiano

12 Dicembre 2024

Ormai hanno imparato a capire quanto durerà. Guardano gli equipaggiamenti, le dotazioni, le armi. Contano i bulldozer e i carri armati. Una settimana fa le forze israeliane hanno fatto irruzione nel Turkish Hospital di Tubas, nel nord della Cisgiordania, tra colpi d’arma da fuoco e urla dei feriti. Hanno lanciato una bomba nella sala d’emergenza. Hanno arrestato un medico e alcuni operatori. Qualche giorno prima era accaduto a Jenin. Quest’ultima incursione “sarà meno lunga della precedente, ma più delle altre”: era stata la previsione del capomissione per i Territori occupati palestinesi di Medici Senza Frontiere, Enzo Porpiglia, un calabrese di Scilla. Le forze dell’esercito israeliano rimarranno a Jenin “solo” 55 ore, molte delle quali passate, dallo staff MSF, nella stanza di sicurezza. “Si sentono spari ed esplosioni continuamente. Dai nostri arrivano notizie di palestinesi usati come scudi umani negli scontri”. Black-out totale, no elettricità, no acqua. Ospedali assediati. Veicoli blindati che bloccano l’accesso alle ambulanze. Fino a quel messaggio: “Si sono ritirati”.

Un rapporto MSF che il Fatto ha potuto leggere in anteprima documenta, nella regione nord della West Bank (Jenin, Nablus, Qalqilya, Tubas e Tulkarem), un “sistematico modello di negazione e ostacolo all’accesso alle cure” durante i raid dell’Idf, con “gravi conseguenze sia per i malati d’emergenza sia per quelli cronici: una “punizione collettiva imposta dalle autorità israeliane alla popolazione palestinese”. Non siamo a Gaza, ma è come se lo fossimo. E così, mentre gli occhi – distratti – guardano verso Khan Younis o Deir al Balah, e poi verso Beirut, in Libano, e ora verso Aleppo, in Siria, la violenza qui non conosce limiti. E a farne le spese non sono solo i palestinesi ma anche i pochi operatori umanitari rimasti in missione, a rischio della vita.

Negli oltre 5.500 raid israeliani che hanno investito la Cisgiordania dalla strage del 7 ottobre, secondo l’Onu, 538 sono gli attacchi a sanitari e strutture ospedaliere, 20 le cliniche mobili distrutte, 374 le ambulanze colpite, 23 gli operatori uccisi e cento quelli feriti. “Noi ne abbiamo persi otto”, spiega Porpiglia. È lui l’uomo che fino a luglio 2025 deve assicurarsi, tra mille cose, che nessuno dei “suoi” venga ammazzato. Per questo, come per far entrare a Gaza una sedia a rotelle o un ago-cannula, ha imparato a parlare con tutti, per conoscere e prevedere pensieri e movimenti: “Io tratto, facilito…”, spiega da Gerusalemme. “Ma quello che faccio fino in fondo è creare uno spazio umanitario tra persone che non si vogliono o possono parlare”. Enzo è un ragazzo sorprendente: 35 anni, arriva a MSF dopo una laurea in Gestione delle emergenze e dopo essersi innamorato professionalmente di Gino Strada e aver dedicato a Emergency i primi anni di lavoro. “E pensare che se non avessi spedito quel curriculum sarei in un campo di paintball gun, hai presente le pistole a vernice? Avevo già affittato un bosco vicino a casa, in Calabria…”. Da quando entra in MSF parte per i teatri di guerra più duri e recenti: l’Ucraina, dove è rimasto per mesi a coordinare la missione, e ora Gaza e i Territori occupati. “Ho sempre avuto una certa passione per le catastrofi naturali”, dice sarcastico, come solo quelli che hanno imparato a vivere facendo slalom con la morte sanno essere.

Una delle cose che ti racconta con più soddisfazione è l’addestramento al primo soccorso della popolazione locale, nei campi profughi che subiscono i raid. Quando, di fronte alle ambulanze che possono arrivare anche dopo 45 minuti o mai, il tempo è tutto e può salvare vite. Gli abitanti conoscono le case in cui si trovano i kit di sopravvivenza, nascosti sotto i letti o negli armadi, così come chi ha imparato a usarli. E, in collaborazione con la Mezzaluna rossa palestinese, riescono a stabilizzare moltissimi feriti, salvandoli da morte certa. “Al campo profughi di Al Far’a, vicino Tubas, durante una delle ultime incursioni, i nostri volontari hanno stabilizzato 17 pazienti: avevamo delle stanze equipaggiate con ossigeno, letti… Poi ci hanno bombardato anche quelle”, racconta Hassam, un infermiere di MSF di 26 anni, nato e cresciuto a Jenin. È al lavoro con lo staff mobile che visita, una volta ogni due settimane, l’ambulatorio di Jit, Nablus. Anche lui, prima di entrare in MSF, era uno di quei volontari che seguono i corsi di First aid (tre giorni di training) e di First responder (dieci giorni intensivi in cui viene insegnato come fermare un’emorragia, come effettuare il massaggio cardiaco in caso di infarto, come amputare un arto, seguiti da dieci passaggi in ambulanza per testarsi sul campo). “Da studente avevo letto di quello che questa organizzazione fa – riprende Hassam – e, per davvero, è quello che facciamo ogni giorno. Specie da quando, dopo il 7 ottobre, circa il 25-30% dei palestinesi non ha più un’assicurazione sanitaria, prima compresa con i contratti di lavoro in Israele”: i permessi di lavoro revocati sono stati 148 mila e, più in generale, 292 mila i posti persi.

In Palestina MSF è presente con diversi “centri operativi” (Belgio, Francia, Spagna, Svizzera e Olanda) che lavorano, tranne che a Gaza dove sono un po’ tutti su tutto, per zone. A Jenin e Tulkarem le équipe continuano a rafforzare le capacità dei primi soccorritori e a fornire acqua e farmaci essenziali durante le incursioni oltreché sostegno psicologico. A Nablus, Tubas e Qalqilya, da gennaio 2024 sono state assistite psicologicamente oltre 3.400 persone e da luglio 2.483 pazienti sono stati raggiunti da team mobili, per curare in prevalenza infezioni alle vie respiratorie e cutanee e ipertensione. A Hebron l’operatività ruota attorno a 15 cliniche mobili, alla distribuzione di beni di prima necessità, di pacchi alimentari e di kit igienici, e al supporto a vari ospedali. Su tutto, c’è il lavoro fondamentale sul trauma: “Qui, nella West Bank, è in corso prima di tutto una guerra psicologica più che di mass casualties, come a Gaza”, spiega la coordinatrice MSF per la salute mentale a Jenin, che preferisce restare anonima. “Abbiamo a che fare con l’imprevedibilità della violenza e con sintomi da stress acuto e immediato. Ci sono persone che vanno in iper-vigilanza, chi ha difficoltà a concentrarsi, chi soffre di insonnia e chi di allucinazioni. Tantissime madri vengono da noi dicendo ‘oddio, mio figlio è impazzito’…”. Ma quello è il corpo che sta rispondendo a un evento abnorme, la guerra, cercando di adattarsi a qualcosa che normale non è.

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