IL REPORTAGE

Il saccheggio di Jit e della West Bank “gazificata”

La 2° puntata del viaggio in Palestina - La “proxy war” dei coloni Dal 7.10 confische record di terre, nuovi avamposti e strade: vicino a Nablus c’è un’annessione di fatto. “I palestinesi faranno la fine degli Indiani d’America”

7 Dicembre 2024

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“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, era uno degli slogan del sionismo, alla fine del XIX secolo. Che gli ebrei fossero un popolo senza terra era vero. Non che la Palestina, la terra indicata, fosse inabitata. I palestinesi avevano sopportato molti padroni – romani, bizantini, ottomani, inglesi – e il nazionalismo, per molto tempo, non aveva significato per loro. Ora sembrava che il vento con furia tentasse di afferrare per un angolo la terra, per scrollarle di dosso tutto, dal nome all’identità e alla storia. “Per molti di noi non resta che andare via o in America o in Turchia, ma fuori per me non c’è nulla. Io sono nata in Giordania, mia madre è morta sognando di tornare a Giaffa: non permetterò di toglierci anche l’unica casa che hanno conosciuto le mie figlie”, racconta Ala, 36 anni. A dividere la sua casa dall’insediamento di Havat Gilad ci sono due chilometri, un cumulo di terra che sbarra la strada e un posto di blocco illegale. Insieme ad altre tre abitazioni limitrofe, la casa di Ala ha ricevuto l’ordine di confisca da parte del governo israeliano, con sgombero annesso. Tutto intorno, ulivi.

Dalle pendici della collina su cui sorge il piccolo centro di Jit, si scorge Nablus. E gli insediamenti israeliani che lo cingono: Kedumim, creato nel 1977, oggi conta più di tremila coloni stanziali; l’avamposto di Har Hemed, del 1996; e quello, tra i più radicali, di Havat Gilad, ricostruito nel 2003. Tutti su territori confiscati e dichiarati “State land” da Israele, secondo un’interpretazione dell’antica legge fondiaria ottomana. Siamo nel mezzo dell’Area C, quella che occupa il 60% della West Bank e che, per gli Accordi di Oslo del 1993, è amministrata dalle autorità israeliane, sebbene sarebbe dovuta gradualmente passare a quella palestinese. “Dal 7 ottobre c’è stato un aumento record nelle confische”, spiega Mauricio Lapchik di Peace Now. “Parliamo di 24.193 dunam, i vecchi dunum degli ottomani: l’equivalente di 2.400 ettari di terra espropriati con il pretesto delle ‘esigenze di sicurezza’. Per avere un’idea, solo nel 2024 sono state dichiarate Stato d’Israele metà delle terre occupate dal 1993, da Oslo, a oggi”. In più, ci sono da contare le aree considerate “non sicure” per gli assalti dei coloni (1.454 in Cisgiordania dal 7.10 con 144 palestinesi uccisi, fonte Ocha): il ricercatore Dror Etkes, dell’associazione della società civile israeliana Kerem Navot, stima che siano ulteriori 7.300 dunam, 730 ettari. E poi c’è la terra sottratta per costruire le nuove strade a “uso esclusivo”, come Hawara road, nata per bypassare il vecchio villaggio palestinese di Hawara e connettere più velocemente gli insediamenti israeliani intorno a Nablus. “Tutto questo sta portando a un rapido e controllato processo di annessione dell’Area C: se non de iure, de facto”, sostiene Lapchick. A creare le condizioni dell’attuale saccheggio: Gaza e l’agenda politica dei coloni che è quella del governo Netanyahu. A partire dal ministro delle Finanze, l’oltranzista Bezalel Smotrich, già governatore della Giudea e della Samaria, che ha stanziato nel 2024 737 milioni di shekel per gli insediamenti e 7 bilioni di shekel in 5 anni per la costruzione di infrastrutture nelle colonie.

Dal 7 ottobre, 70 sono gli avamposti illegali – le famose fattorie con cui i coloni iniziano a manifestare la loro presenza – riconosciuti dal governo, e 45 i nuovi insediamenti: la media, dal 1996 al 2023, era di sette l’anno (dati Kerem Navot e Peace Now). Ci vivono in tutto 700mila israeliani, a fronte di poco meno di tre milioni di palestinesi, concentrati per lo più nella Valle del Giordano, nel sud di Hebron e vicino a Nablus. Basta percorrere la road 60, quella che taglia i brulli paesaggi della Cisgiordania e che collega, check-point permettendo, Gerusalemme a Nablus e poi a Jenin, verso nord, e a Hebron, verso sud. Non c’è collina, soprattutto intorno al Garazìm, il “monte dei samaritani”, che non abbia sulla cima un insediamento o un avamposto israeliano. Te ne accorgi, al buio, per le mille luci che spuntano sulle estremità, come fossero luminarie di un albero di Natale. Mentre, di giorno, riesci a distinguere le colonie dai villaggi palestinesi perché sui tetti non trovi le tipiche cisterne bianche o nere: ogni famiglia palestinese ne possiede una per garantirsi l’acqua, preziosissima, nei 5 giorni della settimana in cui non è fornita (per i coloni c’è 7 su 7, l’allaccio è diretto alla rete idrica israeliana). Israel Ganz, il capo dello Yesha Council che riunisce tutti i consigli municipali degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, lo ha detto: gioendo per la vittoria di Trump, ha dichiarato che “l’annessione della West Bank porterà stabilità e vera pace: è arrivato il tempo di costruire ampiamente ed estensivamente e di riprenderci la nostra sovranità”.

È un piano che fa parte di un progetto più ampio volto a modificare la demografia della West Bank con una sorta di – sostengono le maggiori ong e associazioni israeliane – “proxy war che i coloni combattono per conto del governo Netanyahu”. E che si traduce, come effetti, nello spingere quanti più palestinesi che vivono nella già frammentata Area C verso l’Area A, concentrandoli in zone limitate sempre più affollate, sempre più invivibili: la chiamano “gazificazione della West Bank”. “Non è difficile deportare le persone”, dice, sapendo il peso delle parole che sceglie di usare, Dror Etkes di Kerem Navot. “Se hai armi che ti vengono concesse dallo Stato e l’esercito più potente del Medio Oriente a proteggerti, mentre tu palestinese non hai nulla con cui difenderti e non puoi uscire di casa che ti attaccano o ti demoliscono la casa o te la bruciano, cosa fai?”. Così 3.200 palestinesi si sono trasferiti, forzatamente: 50 le comunità espulse solo negli ultimi due anni, secondo Ocha e Kerem Navot.

“Faranno la fine degli Indiani d’America”, ha detto, non tanto provocatoriamente, il giornalista ebreo americano Nathan Thrall che con il suo Un giorno nella vita di Abed Salama: Anatomia di una tragedia a Gerusalemme ha vinto il premio Pulitzer 2024. “Non siamo più nemmeno all’apartheid che da anni denunciamo – dice Shai Parnes di B’Tselem – siamo oltre. E la cosa che è cambiata, specie da qualche mese, è che questo progetto viene rivendicato alla luce del sole. L’obiettivo degli ultimi governi israeliani è sempre stato accaparrarsi quanta più terra possibile, ma veniva fatto trasversalmente e comunque senza tanta pubblicità. Oggi vedo un linguaggio che, da sottotraccia, si sta imponendo come nuova normalità”. Così può capitare che, anche nelle situazioni più semplici, tipo in un locale israeliano di Gerusalemme ovest, bevendo un bicchiere di vino delle cantine di Bayt Jala, uno dei gioielli cristiani a dieci chilometri da Betlemme, voi scopriate leggendo la carta dei vini che Bayt Jala non si trova più in West Bank ma in Giudea. Quella Giudea che con la Samaria richiama il progetto, messianico e politico, del “Grande Israele”. Che non prevede alcuno Stato palestinese. Ma, intorno, solo deserto.

La Storia aveva così ripreso a marciare per le colline, annientando presente e futuro. Quel giorno a Jit si pregava all’aperto, era iniziata la raccolta delle olive: “Mio Signore e mio dio, che oggi sia fatta la tua volontà. A te la mia sottomissione e la mia gratitudine”. Sono arrivati da ovest, da uno dei tre insediamenti vicini. Prima sono entrati nelle case, rompendo i vetri delle finestre. “Ci sono o non ci sono uomini qui?”, chiedevano aggirandosi. Hanno rubato quadri, stoviglie. Poi hanno lanciato le molotov. Incendiato tre abitazioni e le auto parcheggiate che si trovavano davanti. Ucciso con un colpo di fucile Rashid Sidda, un tecnico di 23 anni che stava provando a proteggere la sua casa. In meno di mezz’ora sono diventati cento. “Stiamo tornando. Andatevene in Giordania! Andatevene in Siria!”, urlavano i coloni. Erano vestiti di nero, mascherati. Avevano con sé bombe, custodite in delle borse nere tutte uguali, M16 e bastoni: erano squadre organizzate. Quando tutto finì, si mosse l’esercito. E, dopo l’esercito, le ambulanze e i pompieri. Era il 15 agosto. Il giorno in cui ha avuto luogo “l’incidente terroristico gravissimo – si legge nella nota del generale dell’Idf Avi Bluth – in cui una folla di rivoltosi israeliani ha tentato deliberatamente di ferire gli abitanti di Jit e noi non siamo arrivati in tempo”. Le voci di Jit – il racconto dell’ultimo pogrom compiuto da coloni israeliani – si diffusero nei villaggi vicini. Come un lamento del muezzin all’ora della preghiera, arrivarono a Nablus e in tutta la Cisgiordania. I colpi dei bastoni sembravano quelli contro i rami. Ma gli alberi, intorno, stavano perdendo le foglie. E dio aveva altro che fare, altro da guardare.

Ha collaborato Jo Meg Kennedy

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