Mirafiori e Ilva distrutte e i politici sotto padrone

8 Febbraio 2024

Neanche nel teatro di Bertolt Brecht troviamo inscenato un finanziere, con sigaro e cilindro, che ostenti il suo potere scendendo nella Capitale per incontrarvi in un solo giorno – decidete voi quale sia l’ordine d’importanza – l’ambasciatore americano, il comandante dei Carabinieri, il governatore della Banca d’Italia, il presidente della Repubblica e il ministro dell’Economia. John Elkann non ha il phisique du rôle, ma martedì ci è riuscito. Sempre l’altroieri, a Taranto, la top manager Lucia Morselli esibiva il suo coraggio presentandosi fra gli operai e i padroncini dell’indotto che protestavano davanti all’acciaieria ridotta agli stremi per ammonirli: “Se siamo ai minimi storici è anche perché manca il vostro lavoro, avete portato a casa un sacco di cose che non avevate prima”.

Ricorderemo questo inizio d’anno 2024 per il simultaneo smantellamento di due grandi impianti produttivi, due cattedrali dell’industria, che hanno fatto la storia del dopoguerra: la fabbrica di Mirafiori a Torino e l’impianto siderurgico di Taranto. Un tracollo pianificato di cui sono artefici due multinazionali, Stellantis e ArcelorMittal, a cui lo Stato italiano ha lasciato briglia sciolta. Sono passati esattamente dieci anni dacché Fiat Chrysler spostò la sede legale in Olanda e la sede fiscale nel Regno Unito. “Nulla di irregolare”, si limitò a commentare Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia del governo Letta che, poche settimane dopo, fu rimpiazzato da Matteo Renzi, quello del celebre: “Tra Landini e Marchionne, io sto con Marchionne senza se e senza ma”.

Va precisato che l’opposizione di destra non levò neanche una voce per criticare l’espatrio della maggiore azienda privata del Paese. Le cui pretese, ora che si chiama Stellantis, vengono contestate da Giorgia Meloni con 16 mesi di ritardo dal suo esordio a Palazzo Chigi. Lo stesso ritardo con cui s’è lasciata andare alla deriva Acciaierie d’Italia nonostante che ormai da cinque anni ArcelorMittal avesse rinunciato a investirvi. Niente male come politica industriale in quella che si vanta di essere ancora la seconda manifattura d’Europa.

Del resto la nostra premier, novella Thatcher, nel suo primo discorso in Parlamento, si era rivolta agli imprenditori privati con parole inequivocabili: “Il motto di questo governo sarà ‘non disturbare chi vuole fare’”. Non li hanno disturbati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Chissà se la protesta dei lavoratori torinesi entrati in sciopero dopo l’annuncio di altre sette settimane di cassa integrazione, e dei loro colleghi tarantini che vedono davanti a sé lo spettro della disoccupazione, troverà sul palco di Sanremo la stessa udienza promessa ai contadini coi loro trattori. C’è da dubitarne.

Sembra piuttosto che siamo tornati al 1946, quando il capo della Fiat, Vittorio Valletta, convocato dall’Assemblea costituente, profetizzava: “In Italia l’industria meccanica può contare su un mercato basso della manodopera più che altrove e per decenni”. Come dire: faremo profitti grazie alla nostra possibilità di pagare poco gli operai.

Il mondo è cambiato. Le piattaforme di quella che fu la Fiat sono obsolete. Solo a Cassino e Melfi sono già assegnate specializzazioni produttive. Mirafiori e Pomigliano ne restano prive. Tornare a un milione di automobili fabbricate in Italia appare un miraggio, così come i forni elettrici che dovrebbero rimpiazzare gli impianti usurati di Taranto, Genova e Novi Ligure. Siamo destinati a diventare un Paese importatore di acciaio, succursale di un’industria automobilistica con baricentro francese. Tanto più se si concretizzerà l’idea oggi smentita, ma ben vista dagli esperti, di una fusione fra Stellantis e Renault.

Il nostro sistema industriale scricchiola indifferente ai tardivi lamenti dei sovranisti che, per trarne vantaggio in campagna elettorale, ora mostrano la faccia cattiva agli stessi padroni “apolidi” a cui sono stati fino a ieri ossequiosi. Veniamo da decenni di esaltazione del capitalismo molecolare, quasi che una nazione di 58 milioni di abitanti potesse reggersi su un tessuto di microimprese. Nel loro Illusioni perdute (il Mulino) lo denunciano due economisti, Pietro Modiano e Marco Onado, dopo aver fatto ammenda per aver creduto nei benefici delle privatizzazioni: “La grande impresa privata si è ritirata, lasciando spazio non tanto a medie imprese virtuose, che non sono molte, ma a milioni di microimprese incapaci di crescere al di fuori dei loro mercati locali, molte delle quali per stare in piedi devono uscire dalle regole e pagare il lavoro sotto il livello di sussistenza”. Ovvero: evadere il fisco e sfruttare i dipendenti.

Non è forse questa la base elettorale vezzeggiata dalla destra al potere? Solo degli ingenui possono credere che basti la propaganda demagogica contro le multinazionali antipatriottiche a salvarci dalla retrocessione in atto.

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