La storia

Ma davvero la morte della mia Alessandra non si poteva evitare?

Quattro anni in cerca di giustizia - La sentenza d’assoluzione. Una semplice persona offesa contro un ospedale, il potente San Raffaele, da dove la scrittrice, ricoverata per depressione, riuscì a fuggire

10 Luglio 2022

Mentre il giudice della Procura di Milano Roberto Crepaldi leggeva la sentenza di assoluzione dal reato di omicidio colposo nei confronti della psichiatra che aveva in cura mia moglie Alessandra Appiano, ripensavo ai tanti che mi avevano dato lo stesso consiglio all’indomani del decesso, avvenuto il 3 giugno 2018, quando Alessandra era fuggita dall’ospedale San Raffaele Ville Turro dove era ricoverata nel reparto Psichiatria-Disturbi dell’umore. Dopo avere assunto i farmaci della terapia, aveva ottenuto un permesso per scendere nel giardino dell’ospedale senza accompagnamento; da lì è fuggita, ha raggiunto un hotel poco lontano e si è gettata nel vuoto. Tre ore dopo, quando sono stato io a dare la notizia all’ospedale, nessuno si era accorto di niente.

Chiedi giustizia in sede civile per omesso controllo e verrai risarcito dalla struttura; ma una condanna penale verso i medici o i responsabili dell’ospedale è una strada in salita, la legge 180 fa prevalere su tutto l’autodeterminazione del paziente psichiatrico…”. E invece, la sensazione di essere un povero Don Chisciotte mi ha convinto del contrario, ovvero a intentare un procedimento penale come persona offesa. Una semplice persona contro uno degli ospedali più potenti d’Italia. Ci sono offese che ridurre a mera quantificazione economica suona osceno. E poi, volevo accendere una luce sulle voragini dell’assistenza psichiatrica.

Davvero quella morte non si poteva evitare? È uno strano Paese, l’Italia. Si nega al malato terminale la volontà di sottrarsi alla sofferenza, ma “l’autodeterminazione” del paziente psichiatrico assolve tutti: “L’ha voluto lui”, anche se le malattie psichiatriche azzerano la volontà. La via penale era l’unica strada per stabilire se Alessandra era morta suicida oppure per omicidio colposo; ma anche per impedire che altri finissero nello stesso meccanismo perverso. Quanto a me, non avevo niente da perdere, per il semplice motivo che avevo già perso tutto. Nessuna rivalsa personale. Offeso dalla Sanità, volevo credere nella Giustizia. O meglio: volevo sapere se credere nella Giustizia.

All’indomani del decesso, la Procura della Repubblica di Milano nell’aprire un fascicolo senza ipotesi di reato non ha fatto mistero di credere poco alla condanna per colpa medica in caso di gesto estremo. Con il mio avvocato decidiamo di produrre una relazione tecnica su anamnesi, diagnosi e cambio dei regimi terapeutici nel corso della degenza, ma trovare un perito si rivela tutt’altro che facile. Tra quelli contattati in Milano, nessuno psichiatra forense è disponibile. Qualcuno sulle prime dice di sì; ma poi, forse dopo aver letto quella parolina magica (“San Raffaele”), declina. Solo su Roma riusciamo a individuare un perito, che, esaminata la cartella clinica, ravvisa gravi elementi di negligenza e responsabilità, confluiti in una relazione di consulenza. Nonostante ciò, il 2 aprile 2019 le pm Tiziana Siciliano e Maria Letizia Mocciaro chiedono l’archiviazione senza decidere di disporre una propria perizia e allineandosi alle tesi della direzione del San Raffaele: il suicidio è sempre un evento imprevedibile. Nessun profilo penale, né per il medico curante, né per l’ospedale da cui si è fuggiti senza dare le dimissioni. Prepariamo una motivata opposizione, e chiedo se è possibile riavere lo smartphone che Alessandra aveva con sé fuggendo. Scopro così che il telefonino, mai sequestrato, giaceva nell’ufficio oggetti smarriti del Comune di Milano. A mie spese, provvedo alla trascrizione dei messaggi inviati durante la degenza, che smentiscono clamorosamente la tesi di “un lieve miglioramento” sostenuta dall’ospedale, e li allego in fase di opposizione. Il 24 ottobre 2019 la giudice per le indagini preliminari Patrizia Nobile respinge la richiesta di archiviazione e prescrive dettagliate indagini nel termine di sei mesi. In realtà passeranno più di due anni, durante i quali decidiamo di commissionare una seconda perizia, affidata congiuntamente a due psichiatri.

Il 23 giugno 2021 la sostituta procuratrice Mocciaro chiede il rinvio a giudizio della psichiatra della struttura che aveva in cura Alessandra, mentre i responsabili del San Raffaele Turro escono di scena. Il 22 marzo 2022 il giudice per l’udienza preliminare Roberto Crepaldi dispone il rito abbreviato su richiesta dell’imputata: una strada che blocca ulteriori indagini a fronte della complessità del caso e della scarna attività istruttoria. Nonostante la sollecitazione della dottoressa Nobile, in quattro anni la Procura non ha ritenuto di disporre un accertamento tecnico. In compenso, congiuntamente alla richiesta di abbreviato, la difesa produce una “consulenza specialistica storica” a firma del dottor Enrico Zanalda. Il dottore non ha mai visto Alessandra in vita sua, ma, nel ribadire la tesi del “lieve miglioramento” e dell’imprevedibilità del suicidio, si sente in grado di tracciare un impietoso identikit della degente. Incredibile. Ma si dà il caso che il dottor Zanalda sia il presidente della Sip-Società psichiatrica italiana: il San Raffaele sa da chi farsi rappresentare.

Il 31 maggio 2022, prima e unica udienza prima del giudizio abbreviato, la sostituta procuratrice Mocciaro, per quattro anni titolare dell’indagine, non si presenta. Al suo posto prende la parola la dottoressa Daniela Bartolucci: come folgorata dalla “consulenza storica” sulla personalità di Alessandra, la procura ribalta di nuovo la sua posizione e chiede l’assoluzione per i medesimi capi di imputazione per i quali aveva deciso di esercitare l’azione penale. Come non detto.

E dunque, qual è il sugo di tutta la storia? Sono stato un povero illuso? Aveva ragione chi diceva di non intraprendere l’azione penale? No. Rifarei questa Via Crucis stazione per stazione. La presa di posizione a priori della Procura che è parsa ricredersi per poi tornare sui suoi passi. La cupola opaca della corporazione psichiatrica. L’imprevedibilità ontologica del suicidio, che sarebbe vano voler prevenire. Il potere kafkiano delle strutture ospedaliere. Una legge che protegge i medici e lascia soli i malati. Alessandra suicida una seconda volta, “in nome del popolo italiano”.

Nessuna resipiscenza. Volevo accendere una luce sull’assistenza psichiatrica in questo Paese, e credo che questa ne sia una storia esemplare. Infine, volevo sapere se credere nella giustizia italiana. Ora lo so.

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