Scuole occupate

Il grido disperato degli studenti, ignorato da politica e media

Silenzio assordante - I motivi della protesta che coinvolge decine di scuole sono vecchi, ma sempre attuali: l’edilizia scolastica, le aule fatiscenti, la didattica, il rapporto con i docenti. Però anche le risorse del Pnrr e i danni della "buona scuola" di Renzi. La cosa che fa più impressione è che nessuno ne parla

15 Dicembre 2021

Le occupazioni delle scuole a Roma sono tante, diffuse eppure sembrano fare poca notizia. Quest’anno non scatta nemmeno la descrizione folkloristica tipica dei giornali fatti a Roma che racconta di alzatacce, nottate in bianco e lezioni autogestite. Un silenzio grigio copre la protesta studentesca che il 17 dicembre mattina cercherà di farsi sentire con un nuovo corteo cittadino.

Eppure colpisce la quantità. L’Ansa riferisce di 50 occupazioni dall’inizio dell’anno scolastico. Secondo l’Agenzia Nova, alla giornata del 15 dicembre ce ne sono in corso 21, le altre sono avvenute nei mesi scorsi. Risulta occupato il Liceo classico Bertrand Russell sulla Tuscolana, il liceo classico Augusto in via Gela, il liceo scientifico Giovanni Keplero in via Silvestro Gherardi, l’Istituto Enzo Ferrari in via Grottaferrata, il liceo Eugenio Montale in via di Bravetta, il liceo Plauto in via Renzini, l’istituto Di Vittorio-Lattanzio in via Teano, il liceo artistico Argan in via Ferrini, il liceo scientifico Farnesina in via Giochi Istmici, l’Itis magistrale Caetani via Giuseppe Mazzini, il liceo Pilo Arbertelli in via Manin, l’Itis Margherita di Savoia in via Cerveteri, l’istituto Enzo Ferrari in via Ferrini, il liceo artistico Enzo Rossi in via del Frantoio, il liceo Classico Giulio Cesare in corso Trieste, l’istituto Gaetano De Santis in via Cassia, l’istituto Blaise Pascal in via dei Robilant, il liceo Socrate in via Padre Giuliani, il liceo scientifico Tullio Levi-Civita in via Torre Annunziata, il liceo scientifico Teresa Gullace. Hanno già realizzato l’occupazione anche le scuole più note come il Mamiani, il Tasso, il Virgilio, il Visconti, il Righi, “primo liceo scientifico” della capitale (e per questo consapevole, scrive il Collettivo, della valenza della iniziativa).

Stavolta partecipano anche le scuole tradizionalmente poco inclini alle occupazioni e lo fanno nonostante l’emergenza Covid. Situazione alla quale tutti si sono adeguati con i tamponi fatti prima e dopo l’occupazione, le raccomandazioni agli occupanti, senza, apparentemente, minimizzare i rischi.

Ci sono le organizzazioni studentesche, la più strutturata Rete degli studenti medi – “Non ci fermiamo, serve che Ministero e governo aprano gli occhi”, spiega Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete – la più recente Osa presente al liceo artistico Ripetta dove ci sono stati momenti di tensione con la polizia (e altri casi si sono verificati anche all’Argan, al Plauto dove i dirigenti scolastici hanno preferito rivolgersi alle forze dell’ordine). Ma non sembra una protesta organizzata da strutture sindacali. A proliferare sono i collettivi, i comitati, forti del supporto dei social network, Instagram più di tutti (dove si possono consultare tutti i documenti) veicolo di immagini e testi spesso prolissi, articolati, ma chiari nelle rivendicazioni. Che sono quasi quelli di sempre: l’edilizia scolastica, le aule fatiscenti, la didattica che non è come gli studenti la sognano, il rapporto con i docenti, tutte questioni che scivolano di anno in anno per lo meno dal ’68 e accomunano generazioni diverse.

Ma stavolta c’è qualcosa in più che dovrebbe indurre a prestare attenzione. Queste sono le prime occupazioni dopo l’esperienza del Covid, della didattica a distanza, dei lockdown, della socialità improvvisamente nemica, della distanza come strumento di salute pubblica. E sono le occupazioni che da un lato attendono i benefici, sbandierati ed enfatizzati, del Pnrr, il piano europeo di rilancio dell’economia, e dall’altro si sono accorte anche degli effetti perversi della “buona scuola”, il rapporto con le aziende, il modo con cui vengono costruiti i “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” (Pcto), più banalmente l’alternanza scuola-lavoro (eredità renziana). Da qui l’insistenza sulla didattica alternativa, la critica alla “educazione civica” che sembra fatta in modo approssimato e senza un reale aggancio con il presente: “futile” si legge nel comunicato del Farnesina occupato.

E c’è ancora di più. Nelle lezioni autogestite, con vari esperti (di nomi di richiamo finora si è visto un Michele Santoro al Mamiani, un video di sostegno di Leo Gullotta e poco altro), ritorna spesso la psicologia. Costante la richiesta di sportelli di ascolto, che pure ci sono, ma probabilmente non vengono percepiti come efficaci, in grado di capire gli effetti della socialità negata, ci sono tantissime ragazze che sulla scorta delle mobilitazioni di questi ultimi anni contro la violenza sulle donne, tengono il ritmo della protesta e impongono temi e sguardi un tempo più marginali.

La questione si lega agli effetti della pandemia, a una socialità che si è spersa in diversi rivoli. Al Virgilio scrivono di voler “riprendere la coesione studentesca che la pandemia ha disgregato”, una frase che riassume un sentimento diffuso. Certo, senza generalizzazioni: le occupazioni sono abitate anche da chi vuole semplicemente non andare a scuola, fare festa la sera, magari fare genericamente “casino”. Ma un simile atteggiamento non spiegherebbe la quantità e la qualità delle occupazioni, la loro capacità di generarsi e la forza imitativa. C’è qualcosa di più profondo che viene manifestato tutto sommato con molta gentilezza – “siamo consapevoli delle conseguenze che l’occupazione avrà sulla comunità dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola: a coloro che saranno colpiti dalle nostre azioni di protesta, porgiamo le nostre scuse e il nostro dispiacere” scrivono ancora quelli del Farnesina – anche se, ovviamente, le occupazioni si portano dietro il dibattito sulla legalità e sulla violazione del diritto di chi invece a scuola vuole andarci. Anche questo dibattito antico.

In questa maggiore profondità ci sono termini che ritornano: “Viviamo un’indifferenza generalizzata” scrivono gli e le studenti del Righi; siamo costantemente “ignorati” sottolineano al Mamiani; “preside e polizia sono sordi”, all’Argan. Al Plauto lamentano “mancanza di risposte” e sono saliti sul tetto per farsi notare di più. Ascoltateci, parlate con noi, vogliamo risposte. Voglia di contare di più, paura di perdersi qualcosa, fragilità rese pubbliche, spirito critico. Ingredienti sedimentati nella ondata di politicizzazione segnata dall’emergenza ecologica, dalla “generazione Greta” e dall’influenza del nuovo femminismo giovanile.

Il provveditore di Roma, anzi il direttore dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, ha sentito il bisogno di scrivere una lettera “ai docenti, alle studentesse e agli studenti, al personale Ata e ai genitori” per assicurare la volontà di ascolto e di attenzione ma “solo nelle sedi previste” dove si possono approfondire le difficoltà, per cercare soluzioni condivise “che non possono arrivare dalle occupazioni, poiché ogni azione di forza interrompe, per sua natura, il dialogo”.

L’invito appare generico e un po’ paludato, ma colpisce il silenzio assoluto del ministero guidato da Patrizio Bianchi. Che oltre a non brillare per la gestione della scuola pubblica sembra ancora più impacciato nel rapporto con la popolazione scolastica. Che invece sta lanciando un segnale esplicito – in qualunque modo si voglia giudicare la protesta – e che dice molto di più di quanto si voglia ammettere.

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